Un comportamento così timoroso invita gli aggressori a raddoppiare la pressione e a rinnovare i loro attacchi, fiduciosi che Teheran non oserà mettere in atto le sue minacce.
Ho iniziato il mio articolo della settimana scorsa richiamando una celebre massima di Saint-Just, uno dei leader più eminenti della Rivoluzione francese, per introdurre quella che ho descritto come una lezione storica enunciata come segue: «Coloro che si impegnano in conflitti armati e scontri senza determinazione contro persone che hanno dichiarato essere loro nemici assoluti, inducendo così in questi ultimi la determinazione a schiacciarli a loro volta, sono destinati alla sconfitta». Ho poi descritto alcuni esempi della scarsa determinazione del regime iraniano, che è stata e continua ad essere evidente in varie occasioni nella sua abitudine di fare le cose a metà e nel grande divario tra le sue dichiarazioni altisonanti e le sue azioni timide, quando si trova di fronte ai due stati che ha dichiarato nemici assoluti sin dalla sua creazione: gli Stati Uniti e Israele, il “Grande Satana” e il “Piccolo Satana”, come li ha definiti.
Solo pochi giorni dopo questo articolo, abbiamo assistito all’esempio più eclatante di quanto sopra nel comportamento di Teheran nei confronti di Washington. Quando la minaccia israeliana nei suoi confronti si è intensificata sullo sfondo dello stallo dei negoziati tra il suo governo e l’amministrazione di Donald Trump, la Repubblica islamica ha promesso che avrebbe considerato gli Stati Uniti complici di qualsiasi aggressione israeliana contro di essa (il che è la verità, nonostante le illusioni di coloro che credono nella sincerità del discorso “pacifista” di Donald Trump) e che la sua risposta avrebbe quindi incluso gli interessi americani nella regione tra i suoi obiettivi.
Poi è arrivata l’aggressione israeliana, durante la quale lo stato sionista ha distrutto una parte significativa delle capacità nucleari e militari dell’Iran e ha assassinato un numero impressionante dei suoi leader militari e di sicurezza e di coloro che supervisionavano il suo programma nucleare. Per rappresaglia, Teheran non ha sparato un solo colpo contro nessuna delle basi statunitensi sparse nella regione del Golfo, né ha permesso a nessuno dei suoi alleati regionali di attaccare o anche solo minacciare queste basi o altri simboli dell’egemonia americana nella regione: né Hezbollah libanese, né le Forze di mobilitazione popolare irachene, né tantomeno gli Ansar Allah houthi yemeniti.
Quando lo stesso Trump ha iniziato ad accennare alla possibilità di unirsi al suo alleato Benjamin Netanyahu nell’attacco contro gli impianti nucleari dell’Iran, al fine di completare ciò che Israele aveva iniziato, consentendo alle forze statunitensi di utilizzare mezzi che lo stato sionista non possiede (bombe guidate GBU-57, del peso di oltre 12 tonnellate ciascuna, e gli aerei stealth B-2 in grado di trasportarle), Teheran ha nuovamente minacciato che la sua risposta sarebbe stata massiccia. Questa volta, gli Houthi hanno persino promesso di bombardare le navi americane nel Mar Rosso se gli Stati Uniti avessero attaccato l’Iran.
Avvenuto nella notte tra domenica e lunedì, l’assalto americano ha completato l’aggressione israeliana, come previsto. Teheran ha reagito in un modo che ha costituito un precedente storico: quello della parte attaccata che ringrazia l’aggressore. Infatti, Trump ha ringraziato il regime iraniano per averlo generosamente avvertito in anticipo del suo imminente attacco, che non ha quindi causato alcun danno degno di nota alla base americana presa di mira. Non sorprende che la minaccia degli Houthi si sia rivelata vana, non seguita da alcuna azione.
La differenza è sorprendente rispetto al comportamento della Repubblica islamica nei suoi primi anni, quando la sua determinazione ad affrontare gli Stati Uniti era stata dimostrata da colpi davvero dolorosi inferti alla superpotenza, a partire dall’assedio della sua ambasciata a Teheran dopo la vittoria della rivoluzione khomeinista nel 1979 e culminata con l’attacco mortale alla base dei Marines a Beirut (241 morti) nel 1983 – e il suo comportamento negli ultimi anni, manifestato dalla sua mancanza di risposta ai successivi attacchi sferrati dallo stato sionista contro le sue forze schierate in Siria, poi dalle sue rappresaglie attenuate, quando il limite della sua tolleranza è stato superato con il bombardamento israeliano del consolato iraniano a Damasco il primo aprile dello scorso anno, che ha causato la morte di diversi ufficiali superiori dei Guardiani della Rivoluzione. La risposta di Teheran a questo attentato ha seguito lo schema osservato lunedì durante l’attacco alla base aerea di Al-Udeid in Qatar: la Repubblica islamica ha avvertito Washington in anticipo della sua imminente azione, tramite le autorità qatariote. L’attacco ha quindi causato solo danni molto limitati.
Questo modo di informare il nemico di un attacco imminente affinché possa prepararsi in modo da ridurre al minimo i danni che potrebbe subire è stato inaugurato con la risposta dell’Iran all’assassinio, da parte della prima amministrazione Trump, in Iraq all’inizio del 2020, di Qassem Soleimani, allora comandante della Forza Qods del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Iraniana. Teheran ha notificato alle forze statunitensi, tramite il governo di Baghdad, di prepararsi a un attacco contro le sue forze schierate sul suolo iracheno. Il risultato si è limitato a diversi soldati americani che hanno subito traumi causati dalle esplosioni nella base aerea di Ain al-Asad, il che ha spinto Trump a dichiarare che le ritorsioni iraniane erano così attenuate da non richiedere una risposta. Questo scenario si è ripetuto lunedì, portando Trump a ringraziare Teheran e a dichiarare la fine dei combattimenti e l’instaurazione di una pace globale tra Israele e Iran.
Questa “pace” – che sarebbe più appropriato chiamare tregua, se il cessate il fuoco reggerà (cosa che non è ancora stata confermata al momento della stesura di questo articolo) – non durerà se Washington non raggiungerà un accordo con Teheran. La scommessa di Trump è chiaramente che i duri colpi inflitti da Israele al regime iraniano e la sua dimostrazione di volontà di impegnare direttamente le sue forze nell’aggressione al fianco del suo alleato sionista convinceranno Teheran ad abbandonare la sua insistenza nel preservare la sua capacità di arricchire l’uranio e fabbricare missili a lungo raggio.
L’amministrazione Trump ha fatto della rinuncia a queste due attività una condizione per la conclusione di un nuovo accordo con la Repubblica islamica che includerebbe la revoca delle sanzioni economiche imposte. Si tratta solo della vecchia politica del bastone e della carota, che consiste nel colpire l’avversario promettendogli una ricompensa se si sottomette. Siamo quindi tornati al punto di partenza nell’ultimo ciclo di scontri tra l’Iran e l’alleanza americano-israeliana, con Teheran che si trova ancora di fronte al dilemma di scegliere tra la guerra e la resa. Finora ha cercato invano di trovare una via di mezzo che le consentisse di concedere alcune concessioni senza perdere completamente la faccia.
La differenza principale tra il comportamento del regime iraniano nei suoi primi anni e quello degli ultimi anni deriva chiaramente dalla differenza tra un regime che, all’inizio, godeva di un sostegno popolare schiacciante e un regime che ha perso gran parte di questo sostegno e non ha più fiducia nella sua capacità di controllare la società, che da diversi anni è teatro di successive rivolte. In linea con il comportamento timoroso descritto nell’articolo della scorsa settimana, il regime iraniano, dall’inizio della guerra genocida sionista a Gaza, ha fatto ricorso alla mobilitazione dei suoi ausiliari libanesi e yemeniti, esponendoli al rischio di ritorsioni, senza osare entrare lui stesso in battaglia.
Quando la guerra lo ha raggiunto nonostante le sue precauzioni, a causa dell’aggressività senza limiti dello stato sionista, si è dimostrato debole nei confronti di quest’ultimo (nonostante le sue affermazioni, simili a quelle dei regimi nazionalisti arabi di un tempo che rivendicavano la vittoria mentre erano in preda alla sconfitta) e codardo nei confronti del suo padrone americano. Un simile comportamento invita gli aggressori a raddoppiare la pressione e a rinnovare la loro aggressione, fiduciosi che Teheran non oserà mettere in atto la sua minaccia di incendiare l’intera regione e di attaccare seriamente le basi e gli interessi statunitensi che vi si trovano.
*tradotto dalla versione francese (apparsa sul blog dell’autore su mediapart). L’articolo originale è apprso il 24 giugno 2025 sulla rubrica settimanale che l’autore tiene sul quotidiano in lingua araba Al-Quds al-Arabi di Londra.
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