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silvio-berlusconi-facepalm1-586x364La decadenza dalla carica di senatore di Silvio Berlusconi ha occupato le pagine dei quotidiani per giorni, provocando una certa nausea. Ma sarebbe sbagliato ignorare del tutto questa vicenda, tanto più che potrà provocare mutamenti nella tattica dell’ex premier tutt’altro che insignificanti, ma non la sua sparizione.

Ovvio che per alcuni aspetti non cambierà molto: prima di tutto perché Berlusconi non aveva partecipato quasi mai a sedute e soprattutto a votazioni del Senato, con buone ragioni: sapeva bene che le aule parlamentari sono solo un palcoscenico, e che è possibile usare altri strumenti e scegliere altri luoghi per dirigere un partito e il paese. Berlusconi potrà quindi continuare a farlo ancora tranquillamente, con in più solo qualche supplemento del suo solito vittimismo.
Ma naturalmente ci sono molti altri aspetti da sottolineare, alcuni dei quali sono stati colti in un buon articolo di Tonino Perna apparso ieri sul manifesto, che ha il merito di inquadrare l’azione del cavaliere in un contesto internazionale caratterizzato dal reaganismo e dal thatcherismo, di cui Berlusconi aveva beneficiato prima di entrare direttamente in politica. Per comodità lo riproduco integralmente.
Perna ha ragione formalmente a dire che “il Cavaliere non ha abbassato le imposte come aveva fatto Reagan per il ceto medio alto, non ha smantellato bruscamente lo Stato sociale, come avevano fatto la coppia Thatcher-Reagan” ed è giusta anche la precisazione che se “è riuscito a ridurre progressivamente lo Stato sociale ed i diritti”, lo ha potuto fare senza troppe resistenze “all’interno di un quadro di illegalità diffusa e capillare”. Ma va spiegato che ha potuto farlo perché è arrivato tardi (spinto anche da sue particolari necessità di salvaguardia da processi incombenti) sulla scena politica, quando gran parte del lavoro sporco era stato fatto dal centrosinistra. Basti pensare alle privatizzazioni, occasione di turpi affari oltre che responsabili di catastrofi sociali, avviate da Romano Prodi ben dodici anni prima della discesa in campo di Berlusconi.
Il quale inoltre non era l’unico esponente politico ad avere solidi rapporti con le organizzazioni criminali (si pensi ad Andreotti e a tutta la sua corrente). I suoi legami con la mafia non erano d’altra parte così diversi da quelli della borghesia statunitense “ignorante ed ingorda” di cui parla Perna, che nei primi decenni del Novecento si erano liberati del sindacalismo combattivo usando alternativamente la corruzione e il piombo dei gangster.
Insomma Berlusconi non è stato del tutto atipico ed eccezionale, e non rappresentava un fenomeno esclusivamente italiano: va capovolta quindi l’impostazione classica del PD che lo ha sempre analizzato partendo dalle sue ambizioni e dalle sue caratteristiche, e non dalle esigenze di una borghesia in crisi di cui un settore importante aveva puntato su di lui, come ora punta su Renzi, per ottenere consenso a una politica decisa a monte e fuori delle aule parlamentari.
E va ricordato senza reticenze che il suo successo è stato facilitato dalla trasformazione del PCI (e poi dei partiti che ne hanno raccolto l’eredità, PDS, DS, PD), che ha finito per fare propri comportamenti che gli impedivano di rappresentare anche volendo un’alternativa: dall’accettazione esplicita del liberismo e dalla cancellazione di ogni concezione classista, fino alla disinvolta imitazione della classe capitalista in tutti i suoi aspetti più deteriori, come l’ostentata caccia alle tangenti di un Filippo Penati, non l’ultimo galoppino di provincia ma il principale leader milanese nonché capo della segreteria di Bersani. Per non parlare del famigerato “anche noi abbiamo una banca”… Non era un reato dirlo, ma era la proclamazione esplicita di un approdo a lidi ben lontani da quelli di partenza.
D’altra parte, contro ogni visione italocentrica, bisogna ricordare come nelle grandi linee le politiche economiche nei diversi paesi europei sono molto simili, indipendentemente dal premier del momento (come si è potuto verificare quando c’è stata un’alternanza tra Zapatero e Rajoy, o tra Sarkozy e Hollande, per non parlare degli elementi di forte continuità nel cosiddetto “ventennio berlusconiano” indipendentemente dal nome del premier…). E se l’abbassamento delle aliquote delle imposte per i redditi più alti non è stato fatto da Berlusconi, è solo perché in tutta l’Europa, oltre che negli Stati Uniti e in Giappone, era stato fatto nei primissimi anni Ottanta.
Non si vuol negare la specificità delle diverse proposte politiche, ma semplicemente ricordare che, già a proposito degli anni tra le due guerre, uno storico statunitense, Charles S. Maier, aveva osservato la profonda analogia sostanziale tra le politiche economiche dell’Italia già fascista, della Francia e della Germania di Weimar. E allora non c’era nessuna Unione Europea e nessuna BCE a sovraintendere alle politiche nazionali. (Charles S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese, De Donato, Bari, 1979).
Di Berlusconi oggi poteva dar fastidio in Europa la cialtronesca esibizione della sua mancanza di inibizioni, o la grossolanità di certi suoi interventi in incontri internazionali, non certo la sostanza della sua politica. Per questo l’eredità di Berlusconi, decaduto o meno come senatore, continuerà a pesare nella vita politica italiana, e non solo per il ruolo che almeno Napolitano e Letta vogliono attribuire anche in futuro ai suoi delfini rimasti a condizionare dall’interno il governo delle piccole intese.

 

* tratto da http://antoniomoscato.altervista.org

 

IL “VENTENNIO”
Come nacque la Berlusconomics
di Tonino Perna
dal manifesto del 29/11/13

Alla fine degli anni ’70 del secolo scorso arrivò al potere negli Usa un modesto attore di film western che divenne lo strumento con cui la grande finanza e le imprese multinazionali riuscirono in pochi anni a creare un altro modello economico: la Reaganomics. Non era un modello originale, ma l’estremizzazione di categorie rimaste confinate nel dibattito accademico. Negli anni ’70, infatti, scricchiolava e perdeva prestigio l’economia neokeynesiana per gli effetti della stagflazione, una crescita significativa dell’inflazione accompagnata a bassa crescita o stagnazione, unitamente ad un alto livello di disoccupazione.
Questo fenomeno metteva in difficoltà gli economisti: un tasso sostenuto di inflazione si era storicamente accompagnato alla crescita economica (eccetto i casi di iperinflazione) , allo stesso modo in cui la stagnazione economica era storicamente correlata ad una caduta dei prezzi. In sostanza, il mercato capitalistico non rispondeva più alle leggi della domanda e dell’offerta, per cui in presenza di un alto tasso di disoccupazione e crescita zero si doveva assistere ad un abbassamento del livello salariale, tale da permettere al sistema economico di riprendersi e riassorbire, nel medio-lungo periodo, una parte rilevante dei disoccupati.
Keynes negli anni ’30 aveva spiegato bene che i salari hanno una rigidità verso il basso dovuto a quella che lui definiva “l’illusione monetaria”, determinata per altro dalla presenza di forti organizzazioni sindacali. E proprio queste negli anni ’70 avevano determinato in tutto l’Occidente ondate di lotte sociali, dentro e fuori le fabbriche, che avevano portato a netti miglioramenti nel tenore di vita dei lavoratori.
Il sistema aveva retto finché non si era arrivati ad un alto livello di sovrapproduzione alla fine degli anni ’70. Ed è questo il momento in cui entra in scena Ronald Reagan che sposa la politica economica della scuola di Chicago di Milton Friedman, che individuava nell’eccesso di spesa sociale, di fisco punitivo per i redditi alti, di mercato del lavoro “rigido”, le cause della crisi. La terapia, pertanto, consisteva nel ridurre drasticamente le aliquote per i profitti ed i redditi alti, liberalizzare i movimenti di capitali, in un quadro di decentramento produttivo che portò in un decennio ad uno spostamento dell’industria manifatturiera statunitense fuori dal paese, indebolendo il movimento sindacale ed il potere contrattuale dei lavoratori.
Se osserviamo la distribuzione del reddito negli Usa nel periodo 1950/1978 , divisa per quintili, vediamo che il quinto più povero della popolazione aveva aumentato il reddito reale del 140%, il quinto più ricco del 99%. Di contro nel periodo 1978-1993, con l’avvento della Reaganomics, il quinto più povero perde il 19% mentre il quinto più ricco guadagna il 18% in termini reali. Il cambiamento di rotta era stato netto. Per l’Italia questa inversione di tendenza arriva all’inizio degli anni ’90, con la crisi del ’92, la svalutazione del 30% della lira e l’indebolimento del movimento dei lavoratori.
E’ in questo contesto che bisogna inquadrare l’arrivo di Berlusconi al potere. Lui era un parvenu, che aveva fatto una grande fortuna in pochi anni grazie ai legami con il potere politico (Craxi) e le negoziazioni con le organizzazioni criminali (mafia siciliana). Era un nuovo tipo di borghese, che assomigliava tanto a quella “classe agiata” analizzata da Veblen, ignorante ed ingorda, ambiziosa e arrivista senza scrupoli morali, degli States alla fine del XIX secolo. Ed anche un nuovo tipo di imprenditore che aveva fatto la sua fortuna, non nella tradizionale industria manifatturiera, ma con i nuovi mezzi di comunicazione (la tv privata) dove economia, spettacolo ed ideologia, si intrecciano. La vecchia borghesia italiana, le grandi famiglie degli Agnelli, Pirelli, Costa, ecc., il salotto “buono” di Cuccia, all’inizio lo sottovalutarono o lo snobbarono, ma in pochi anni dovettero venire a patti con il nuovo padrone.
Berlusconi portava avanti con la sua forza comunicativa e con i potenti mezzi di cui disponeva un nuovo credo: il denaro crea l’onore e la stima sociale, indipendentemente da come si è arrivati a possederlo. Non bisogna più vergognarsi di essere ricchi, anzi bisogna sfoggiare la ricchezza, e la ricchezza individuale è alla portata di tutti quelli che sono capaci, “i vincenti”, e fa bene a tutto il paese perché genera nuovi consumi e posti di lavoro. In questa visione della realtà sociale, lo Stato diventa un parassita che va drasticamente ridotto, ma allo stesso tempo è la fonte di extraprofitti, che solo la mano pubblica può offrire. Questa nuova ideologia offriva una legittimazione politica a quel sentimento antistatale così diffuso nel nostro paese, unitamente al bisogno di trovare quel salvatore della patria, l’uomo della Provvidenza, che gli italiani continuano a sognare ciclicamente. Da qui la corsa verso un aumento del debito pubblico, unico strumento che permetteva contemporaneamente una grande evasione dei ceti medio-alti e un po’ di assistenza per mantenere il consenso, nonché il finanziamento delle Grandi Opere per garantire il cerchio magico dei Grandi Affari.
Il Cavaliere non ha abbassato le imposte, come aveva fatto Reagan per il ceto medio-alto, non ha smantellato bruscamente lo Stato sociale, come avevano fatto la coppia Thatcher-Reagan, ma è riuscito a ridurre progressivamente lo Stato sociale ed i diritti, all’interno di un quadro di illegalità diffusa e capillare. Qui sta la profonda differenza con la Reaganomics, la versione berlusconiana del neoliberismo che si sposa con la via criminale al capitalismo. Negli States e nell’Inghilterra, l’ideologia neoliberista è passata attraverso le leggi e l’imposizione/repressione di uno Stato forte, la via italiana al neoliberismo è transitata dolcemente attraverso regole non scritte, uno smantellamento progressivo dello Stato di diritto, un’autostrada che è stata offerta alla borghesia criminale emergente.
La Berlusconomics è così diventata un modello sociale in cui il denaro si legittima da sé, la corruzione è la norma per fare affari, l’evasione fiscale un dovere per sottrarsi al furto di risorse da parte di uno Stato rapinatore e sciupone. E se dopo vent’anni, decine di scandali e frodi i sondaggi lo danno ancora come uno dei leader più forti è perché una parte degli italiani, che oserei stimare in oltre un terzo, condivide, pratica ed ha interiorizzato quel modello. Chi conosce dal di dentro il mondo delle imprese sa che sono rarissime le gare d’appalto che si vincono per meriti, senza pagare una “tangente” o aver negoziato uno scambio di favori. Chi conosce il mondo della piccola impresa sa quanto è diffuso il lavoro nero perché in questo paese la gran parte degli ispettori del lavoro sono corrotti o indulgenti. Chi conosce il mondo dei professionisti – avvocati, commercialisti, consulenti finanziari – sa come il loro reddito dipende in buona parte dalla capacità di aggirare le norme, di evadere le tasse, esportare i capitali nei paradisi fiscali.
C’è anche un rovescio della medaglia. Per chi vuole vivere nella legalità, il carico fiscale, soprattutto sulla piccola e media impresa, è diventato insopportabile. Nelle microimprese, artigianali o commerciali, se si rispettassero tutte le norme la gran parte potrebbe chiudere i battenti. Per chi subisce un torto e spera nella giustizia civile rischia di fallire prima che si concluda un processo. Per chi commette un reato penale, se non è amico della Cancellieri, rischia di restare in attesa di giudizio per anni.
Questo sfascio istituzionalizzato non ha fatto altro che far crescere la massa di coloro che si sono identificati, per rabbia o per necessità, nella Berlusconomics. Il sistema si è autoalimentato finché non è scoppiata la crisi finanziaria che si è riverberata sull’economia reale, ed il modello è andato in tilt. Ma, la Berlusconomics ha messo ormai radici profonde nel nostro paese e sarà difficile sradicarle nel medio periodo.
Il rischio è che chi verrà dopo di lui, faccia quello che hanno fatto Clinton o Blair: mantenere sostanzialmente il modello, spuntando solo le parti più indigeste. Il nostro Clinton è giovane e belloccio come Bill quando arrivò al potere, e come lui un buon comunicatore a trecentosessanta gradi, per piacere a tutti. Clinton non è riuscito a fare la riforma sanitaria e un fisco progressivo- come aveva promesso in campagna elettorale- ma ci ha regalato nel 1994 la liberalizzazione della finanza, abrogando i vincoli creati da Roosevelt per impedire che si ripetesse il crac del ’29. Da meno di 100 miliardi di derivati finanziari del 1994 si è passati ai 600.000 miliardi di dollari del 2007, ed ai 650mila di oggi. Vediamo cosa sarà capace di fare il nostro Fonzie e gli amici finanzieri che lo sostengono.