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Di Cristiano Dan

Dopo l’Olanda, la Saarland. Certo, occorre fare attenzione ai paragoni. La Saarland è uno dei più piccoli Länder tedeschi (rasenta appena il milione di abitanti), e rappresenta pertanto un “campione” molto ridotto, sia rispetto alla Germania nel suo complesso, sia anche rispetto all’Olanda. Però…

Nonostante le ridotte dimensioni del nostro “campione”, infatti, le elezioni di domenica scorsa erano attese con molto interesse, soprattutto per verificare due possibili tendenze: innanzi tutto, la prevista, da molti, “rimonta” del Partito socialdemocratico (SPD) dopo che questi aveva nominato all’unanimità Schultz come proprio candidato alla Cancelleria tedesca; in secondo luogo, l’entità della crescita, anch’essa prevista, della xenofoba e fascisteggiante Alleanza per la Germania (AfD).

Ebbene, la prima tendenza prevista, la crescita della SPD, non c’è stata; e la seconda tendenza, la crescita della AfD, si è verificata sì come da copione, ma non nell’entità temuta. Più in generale, quel che è avvenuto è stato un pesante arretramento della sinistra, in tutte le sue sfumature, con uno spostamento a destra complessivo del quadro politico.

L’arretramento generale della sinistra. L’unico partito dichiaratamente anticapitalista era rappresentato da Die Linke (La Sinistra), che subisce una seria sconfitta: cala infatti dal 16,1 % al 12,9 % (meno 3,2%) e perde due dei sette seggi che aveva nel parlamento locale (51 membri in tutto). È probabile che i voti persi dalla Linke siano finiti, almeno in parte, alla SPD (stando alla teoria del “voto utile”). Ma se anche è stato così, questi non sono bastati a compensare, se non in parte, le perdite socialdemocratiche: la SPD, infatti, pur riuscendo a mantenere i propri 17 seggi, cala dal 30,6 % al 29,6 %. Un calo delle stesse dimensioni registrano i Grünen (Verdi), che dal 5 % scendono al 4 %, sotto la soglia necessaria per ottenere seggi, perdendo così i due che detenevano. In totale, il salasso della sinistra “larga” (anticapitalisti e centrosinistra assieme) ammonta a oltre il 5 % dei voti e a quattro seggi in meno. Se poi collochiamo nel centrosinistra anche il partito dei Pirati (Piratenpartei), il bilancio si fa più pesante: il Piratenpartei infatti si liquefa letteralmente, scendendo dal 7,4 % all’attuale 0,8 %, perdendo tutti i quattro seggi che aveva. Tirando le somme, dalla sinistra e dal centrosinistra migrano verso il centro e la destra quasi il 12 % dei voti e otto seggi.

Un generale spostamento a destra. Quasi la metà di questa “migrazione” finisce in tasca all’Unione cristiano-democratica (CDU) della Merkel, che dal 35,2 % sale al 40,7 % (più 5,5 %), guadagnando cinque seggi (da 19 a 24). Il resto si distribuisce fra i liberaldemocratici della FDP (più 2,1 %; ma attestandosi solo al 3,3 % non superano la soglia di sbarramento, e restano senza rappresentanza) e il 6,2 % nuovo di zecca della AfD, che si presentava per la prima volta e ottiene tre seggi. Questo 6,2 % della AfD è, in sé, un risultato non trascurabile, ma comunque di gran lunga inferiore – ripetiamolo – alle previsioni. Inoltre, lo “sfondamento” verso il centro (e anche verso una parte dell’elettorato di sinistra) non dovrebbe essere superiore a un 4% dei voti, perché un altro 2 % è stato sicuramente sottratto ad altre formazioni di destra e d’estrema destra (i neonazisti del NPD, i cristiani fondamentalisti di Familie, eccetera).

Quali lezioni ricavarne? Dopo questa necessariamente sommaria analisi del voto nei suoi aspetti quantitativi si tratta ora di tentarne un’analisi “qualitativa”, politica insomma. Ora, il temuto sfondamento della estrema destra xenofoba non si è verificato, ma non perché le sue tesi, i suoi programmi, siano stati sconfitti, ma, al contrario, perché sono stati fatti parzialmente propri, in versione edulcorata, relativamente soft, da parte delle principali forze centriste e di destra “moderata” tedesca. Sia la FDP sia la CDU (questa soprattutto dietro pressione del suo partito gemello bavarese, la CSU) sono infatti riuscite a disinnescare in parte la minaccia della AfD adottandone e adattandone in parte il programma (per esempio, sui temi della sicurezza, dell’emigrazione, eccetera). Un’operazione che abbiamo già visto, recentemente, in Olanda, e a cui stiamo assistendo in Francia, e che la dice lunga sullo spessore “democratico” di chi la pratica: incapaci di contrapporsi frontalmente all’estrema destra (per farlo dovrebbero porre radicalmente in discussione la propria ragion d’essere) le fanno concorrenza mimandone metodi e contenuti. Sul breve periodo può anche funzionare, in termini puramente elettorali, ma il risultato finale è un progressivo cedimento sul piano dei principi, dei programmi, della stessa concezione della “democrazia”. Una via che, una volta imboccata, diventa sempre più difficile abbandonare (c’è sempre un’elezione da vincere dietro l’angolo…) e che conduce inesorabilmente a un imbarbarimento dello scontro politico e sociale.

Quanto alla sinistra “larga” di cui abbiamo parlato, c’è il rischio di continuare a ripetersi. Il naufragio del Piratenpartei non è in sé preoccupante. Queste formazioni nate in rete e che vivono soprattutto di rete possono attraversare periodi più o meno lunghi di relativo successo, ma sono destinate sempre a scomparire prima o poi nel nulla, data la loro inconsistenza programmatica e la sconcertante eterogeneità del materiale umano di cui sono composte. Ne abbiamo qualche esempio anche in Italia, anche se per ora miracolato dal vuoto a sinistra che si è prodotto.

Quanto ai Verdi, equamente divisi in Germania fra fondamentalisti e possibilisti, nella Saarland hanno fatto troppe capriole, spostandosi in continuazione fra destra e sinistra, per non aver sollevato qualche dubbio fra il loro tradizionale elettorato. Ne hanno ora pagato il conto. La SPD, dal canto suo, si illudeva, probabilmente, che bastassero alcune dichiarazioni un po’ più di sinistra (sul piano esclusivamente verbale) e la “scesa in campo” di Schultz per cominciare la “rimonta”. Si è visto che non è bastato.

Resta il punto dolente della Linke. La sconfitta è stata severa, e lo è ancora di più se si pensa che solo otto anni fa, nel 2009, la Linke aveva raggiunto in questa regione il 21,3 % dei voti: da allora a oggi ha perso oltre l’8 %, più di un terzo del proprio elettorato. Allora quel risultato era stato raggiunto sull’onda delle speranze sollevate dalla nascita di questa formazione, frutto della fusione fra il partito erede della SED tedesco-orientale, il Partito del socialismo democratico (PDS), e una piccola ma prestigiosa formazione di sinistra socialista, scissasi dalla SPD: la SWAG di Oskar Lafontaine, candidato della Linke in queste elezioni. Com’è noto, la Linke non è mai riuscita, in seguito, a diventare un partito veramente “nazionale”: la sua non trascurabile forza è sempre rimasta concentrata nell’ex Germania orientale, salvo pochissime eccezioni nella parte occidentale, una delle quali, la più significativa, era rappresentata proprio dalla Saarland, grazie soprattutto a Lafontaine. E ora, l’eccezione sta rapidamente “dimagrendo”. Il fatto è che alle speranze suscitate all’inizio avrebbero dovuto far seguito rapidi e decisi passi verso un rinnovamento nei programmi, nei comportamenti, nello “stile”. Non si è riusciti a (o non si è voluto) farlo, e ci si è adagiati in una gestione alquanto burocratica dell’esistente, facendo del piccolo cabotaggio invece di lanciarsi in mare aperto. Il peso dell’eredità e dell’apparato dell’Est è stato preponderante, ha spesso soffocato o diluito iniziative interessanti. La politica del giorno per giorno ha preso il sopravvento sulla “grande politica”. La Linke cerca di resistere: ma dovrebbe sforzarsi di ri-esistere, per citare la bella espressione di un compagno brasiliano a proposito della sinistra in quel Paese.