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Anche se spesso vengono descritti come poli opposti, nell’epoca del capitalismo maturo stato e mercato si configurano come terreni complementari di sostegno all’accumulazione di capitale, mettendo a rischio la democrazia liberale

Quando, lo scorso anno, Mario Draghi è stato nominato presidente del consiglio, anche i media mainstream hanno ricordato il suo rapporto intellettuale e formativo intrattenuto – ai tempi in cui era un promettente studente di Economia – con Federico Caffè, il famoso economista abruzzese scomparso in circostanze mai del tutto chiarite. 

Gli osservatori più critici delle gesta del Draghi adulto non si sono giustamente lasciati sfuggire l’occasione di notare come, però, non debba essere rimasto molto della lezione e dell’ispirazione di Caffè nella carriera di Draghi, se è vero che l’ex Presidente della Bce è stato in prima fila in una serie di processi controversi, dalle massicce privatizzazioni italiane degli anni Novanta fino alla gestione austeritaria della crisi greca nel 2015, che difficilmente avrebbero incontrato il parere favorevole del maestro.

Sarebbe allora interessante sapere se Mario Draghi sia a conoscenza di un testo, originariamente pubblicato nel 1973, che in un’edizione italiana fu accompagnato proprio da una prefazione scritta da Federico Caffè. Si tratta del celebre La crisi fiscale dello stato di James O’Connor, che insieme a Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy e Lavoro e capitale monopolistico di Braverman va a comporre un’ideale trilogia di analisi di alcune delle principali tendenze contraddittorie del cosiddetto capitalismo monopolistico. 

La crisi fiscale dello stato

Come anticipato, il libro di O’Connor venne dato alle stampe nel 1973, in un contesto sicuramente diverso da quello attuale. Eppure, per un insieme di motivi che vedremo, alcune intuizioni di questo testo sembrano in grado di cogliere una serie di aspetti che in qualche modo si palesano anche qui e ora, quasi cinquant’anni dopo e in un paese, come l’Italia, diverso da quello su cui è incentrata l’analisi di O’Connor, ovverosia gli Stati uniti.

Uno dei principali obiettivi de La crisi fiscale dello stato è il tentativo di comprendere la complessità delle relazioni e degli intrecci che legano appunto lo stato alla traiettoria di sviluppo del capitalismo, in un contesto di crescente concentrazione dei capitali che dà appunto luogo a quello che viene identificato come capitale monopolistico. 

Sinteticamente, l’analisi di O’Connor classifica la spesa pubblica in tre grandi tipologie o campi di intervento. Riprendendo una recensione scritta pochi anni dopo l’uscita del libro da Ester Fano Damascelli, il bilancio dello stato si articola dunque in forme di sostegno agli investimenti privati (per esempio con la costruzione di grandi infrastrutture logistiche o il finanziamento della ricerca tecnologica e delle commesse pubbliche in particolare nel settore militare), organizzazione di consumi pubblici (istruzione, pensioni, trasporti) e spese per scopi politico-sociali (interventi assistenziali a sostegno delle fasce più povere della popolazione). Nel complesso, secondo O’Connor, ognuna di queste tre grandi categorie di bilancio concorre al perseguimento di quelle che sono le due principali funzioni dello stato nell’era del capitale monopolistico, e cioè la creazione continua delle condizioni per cui il capitale possa accumularsi e la riproduzione del senso di legittimità e consenso sociale nei confronti di questo sistema.

Più in concreto, la costruzione di grandi reti di trasporto, a carico del settore pubblico, consente alle merci di circolare e pone le basi per la realizzazione del valore generato nel processo di produzione capitalistico. Il finanziamento della ricerca da parte dello stato permette di dare vita a nuovi prodotti, aprendo così la strada a nuovi possibili mercati in cui potranno inserirsi capitali privati. L’introduzione di misure di assistenza sociale, invece, consente di mantenere l’ordine e la pace sociale attraverso il sostegno a quelle fasce di popolazione che, secondo O’Connor, sono destinate in misura crescente a essere espulse dal processo produttivo del capitale monopolistico in virtù dell’adozione di innovazioni tecniche e dunque sono più a rischio di manifestare dissenso nei confronti del sistema. Infine, istruzione, pensioni, sanità e trasporti possono essere inquadrati come costi di riproduzione della forza-lavoro (o, se si preferisce usare le parole di Anwar Shaikh, salario sociale) che, venendo finanziati tramite la spesa pubblica, permettono alle imprese del capitale monopolistico di generare valore proteggendosi nel contempo dal rischio di caduta dei propri tassi di profitto.

Stato e mercato, dunque, nella prospettiva di O’Connor, lungi dal rappresentare due poli antitetici, sono anzi visti come terreni complementari e reciproci di preservazione e mantenimento dell’ordine capitalistico, all’insegna del classico schema che, semplificando, si potrebbe definire di socializzazione dei costi e privatizzazione dei profitti.

Da dove deriva allora la crisi fiscale dello stato? Quando fu pubblicato il libro, nel 1973, il capitalismo occidentale era scosso da alti livelli di inflazione, cui si accompagnava una tendenza crescente alla stagnazione economica e all’aumento del debito pubblico. Il continuo aumento dei salari nel settore privato dell’economia, in particolare nelle industrie a più alto tasso di innovazione tecnica, si riverberava a cascata nel settore pubblico, generando così nello stesso momento una spirale inflattiva associata all’incremento dei costi necessari per sostenere le prestazioni statali.

Nelle previsioni dell’autore, ciò avrebbe indotto una ristrutturazione complessiva della spesa pubblica, a cui si sarebbe legata una generale politica di moderazione salariale tanto nel settore pubblico quanto in quello privato, con il fine ultimo di continuare a sostenere i tassi di profitto delle imprese. A distanza di cinquant’anni, si può osservare come il nucleo delle intuizioni di O’Connor abbia effettivamente trovato un riscontro nella realtà, con una serie di conseguenze apparentemente rilevanti anche dal punto di vista sociale e politico.

Ristrutturazione e crisi politica dello stato

Il cocktail di aumenti salariali, incremento dell’inflazione e rallentamento dei tassi di crescita dell’economia ha caratterizzato anche e soprattutto la situazione italiana nel corso degli anni Settanta. Non è un caso che proprio in quel periodo abbia iniziato a delinearsi nel nostro paese una politica dei sacrifici, volta in primo luogo a contenere le rivendicazioni di natura salariale. È noto poi come questo più ampio processo di ristrutturazione abbia conosciuto un’ulteriore accelerazione a partire dai primi anni Novanta, segnati dalle dismissioni delle partecipazioni statali, dalla tendenza all’aziendalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici e dal perseguimento di avanzi primari di bilancio.

In questo contesto, l’attacco al salario è avvenuto non solo sul terreno sempre più accidentato delle relazioni industriali, ma anche sul piano del salario sociale. Ne sono un esempio il peggioramento progressivo dei criteri di accesso e di calcolo delle prestazioni pensionistiche oltre che i feroci tagli alla scuola pubblica e alla sanità, che secondo un ormai famoso rapporto della Fondazione Gimbe è stata vittima di una sottrazione di 37 miliardi di euro in soli dieci anni, fra il 2010 e il 2019. Nel frattempo, però, lo stato non si è tirato indietro nel finanziamento diretto e indiretto alle imprese, che hanno potuto beneficiare di vari sgravi fiscali e contributivi legati alle assunzioni di nuova manodopera, come pure di ingenti sconti relativi all’ammortamento degli investimenti in macchinari e tecnologie di produzione innovative. A titolo esemplificativo, secondo l’Osservatorio conti pubblici italiani diretto da Carlo Cottarelli, che certo non può essere tacciato di sentimenti anti-imprenditoriali, la spesa statale per trasferimenti pubblici alle imprese poco prima della pandemia, nel solo 2018, ammontava a quasi 47 miliardi di euro. Si tratta dello stesso anno in cui venivano predisposti i fondi per l’istituzione di una misura di contrasto alla povertà come il Reddito di Cittadinanza, cui sono destinati invece circa 8 miliardi ogni anno.

Provando a riassumere la questione in termini tradizionalmente marxiani, si potrebbe dire che la crisi fiscale dello stato è stata combattuta, da un lato, riducendo progressivamente i costi di riproduzione del capitale variabile (dunque il salario destinato al lavoro vivo), dall’altro, continuando a sussidiare i costi sostenuti dalle imprese per acquisire il proprio capitale costante (macchine e tecnologie di produzione, cioè lavoro morto). In altri termini, seguendo lo schema analitico di O’Connor, lo stato ha scientemente perseguito l’obiettivo di sostenere l’accumulazione di capitale da parte delle imprese. Così facendo, però, ha rinunciato in misura crescente a garantire la legittimità e il consenso sociale nei confronti del sistema. 

Ecco dunque completamente dispiegata una delle principali tendenze contraddittorie del capitalismo: il lavoro vivo, nonostante sia la principale fonte di produzione del valore, vede progressivamente ridursi la sua stessa possibilità di riprodursi. È il trionfo della produzione a scapito della riproduzione, che rischia però di alimentare un cortocircuito caratterizzato da pesanti conseguenze sul piano sociale e politico.

Se le cose stanno così come visto fin qui, le parole pronunciate da Draghi al Meeting di Rimini del 2020, da Presidente del Consiglio in pectore, acquisiscono un significato più chiaro. Particolarmente indicativo risulta il passaggio sulla distinzione fra «debito buono» e «debito cattivo»: il primo è quello «utilizzato a fini produttivi, ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca», mentre il secondo è quello «utilizzato per fini improduttivi». La scelta di campo del governo Draghi non può essere più chiara di così: sostenere l’accumulazione, al bando la legittimità. Ciò spiega tutta una serie di politiche adottate nel corso di quest’ultimo anno, dalla rimodulazione in negativo del Reddito di Cittadinanza alla spinta verso ulteriori privatizzazioni, dal sostegno agli investimenti nell’ambito della digitalizzazione e della cosiddetta transizione ecologica all’assenza del rafforzamento della sanità pubblica. È la magnificazione di un novello e imbastardito «keynesismo» per ricchi, che dimostra come Draghi abbia in realtà imparato bene la lezione di Caffè e di O’Connor, volgendola però del tutto a favore del capitale, contro il lavoro.

Eppure, da più parti giungono ormai da anni i segnali di un progressivo deterioramento e sgretolamento di un sistema la cui unica bussola è quella dell’accumulazione. Sono le conseguenze politiche di questa gestione della crisi fiscale dello stato. Come testimoniato dall’ultima tornata di elezioni amministrative e, più in generale, dal trend di partecipazione alle stesse elezioni politiche nazionali, fasce crescenti della classe lavoratrice rinunciano a prendere parte alla determinazione del destino della democrazia liberale del paese, avvolta da un’inesorabile crisi di legittimità. Una questione gigantesca, che non può che interrogare chi da sinistra continua a porsi il problema della rappresentanza di chi lavora.

Il dibattito sulla fine

Grazie al prezioso lavoro di Mark Fisher, sappiamo come sia diventata egemonica l’idea secondo cui «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». 

Non mancano però punti di vista leggermente diversi. Wolfgang Streeck, ad esempio, in How will capitalism end?, non si chiede se il capitalismo finirà, ma semmai come finirà. E ancora, Franco Berardi, meglio noto come Bifo, in un articolo pubblicato proprio pochi giorni fa, commentando la disfatta americana nel suo ultimo fronte di guerra in Afganistan, chiarisce bene come ciò che una volta sembrava impensabile, cioè il crollo della democrazia liberale, è ormai diventato possibile, se non reale.

A ben vedere, dunque, il problema non è tanto l’impensabilità della fine del capitalismo, quanto piuttosto il fatto che essa, al momento, appaia destinata a coincidere con la stessa fine del mondo, in un quadro segnato dalla combinazione fra ricerca ostinata dell’accumulazione e catastrofe climatica.

In un certo senso, dunque, non resta che prepararsi alla fine. Ed è qui che entra in campo la riflessione sulle forme politiche e sociali di questa preparazione. 

L’analisi dello sviluppo del rapporto fra stato e capitale non sembra lasciare spazio a mediazioni e compromessi dal vago sapore vintage fordista. In altri termini, non sembra ci siano più i margini per restare dentro questo sistema e provare a restaurarne l’ormai perduta legittimità. In questo senso, lo sviluppo e il successo in anni recenti di alcuni movimenti politici cosiddetti «anti-sistema», al di là di una serie di tratti meschini e opportunistici che ne hanno talvolta segnato sia la genesi sia il rapido declino, segnalano la presenza di una esigenza di cambiamento reale che difficilmente può essere ignorata. Ed è a partire da questa esigenza che bisognerebbe interrogarsi per capire se e come la fine che si intravede può coincidere con un nuovo e radicalmente diverso inizio.

*Stefano Valerio lavora a Torino presso un ente privato di ricerca e si occupa in particolare di capitalismo delle piattaforme digitali. Questo articolo è apparso il 18 febbraio 2022 su jacobinitalia.it