Due sono i primati raccolti contemporaneamente da Elly Schlein: prima donna segretaria del Pd e prima ad aver vinto la sfida al ballottaggio rovesciando la sconfitta patita nella conta tra gli iscritti. Finora il candidato alla segreteria che aveva raccolto più voti tra gli iscritti era stato confermato nelle votazioni aperte alle elettrici, agli elettori, ai simpatizzanti vecchi e nuovi. Questa volta non è andata così e, in questo senso, con un po’ di ironia si può dire che il Pd, dopo aver perso le elezioni politiche e quelle regionali, perde anche alle primarie. Difatti, prima del ballottaggio del 26 febbraio, Stefano Bonaccini aveva ottenuto circa il 53% dei voti tra gli iscritti (151. 530), seguita a distanza da Elly Schlein (34,9%), Gianni Cuperlo (8%), Paola De Micheli (4,3%). L’indicazione raccolta dal voto degli iscritti fotografava un contesto nel quale Elly Schlein vinceva in alcune grandi città mentre Stefano Bonaccini risultava primo in tutte le regioni, tranne la Liguria. Un’indicazione che preannunciava, secondo la serie storica, la sua affermazione anche nel ballottaggio finale.
Invece Elly Schlein è riuscita a ribaltare il tavolo, battendo il partito degli iscritti, al quale aveva aderito ultimamente proprio per poter partecipare alla contesa, dopo un tormentoso percorso dentro, fuori, ai lati dell’organizzazione politica. Come era stato sottolineato, per vincere aveva bisogno più di altri del voto degli “esterni”, doveva attivare una metaforica “circolazione extra-corporea” e mobilitare forze critiche di elettorato del Pd. Così è stato, e ha vinto raccogliendo il 53,8” dei consensi in un ballottaggio che ha coinvolto un milione circa di elettori e simpatizzanti di un partito che alle ultime elezioni politiche ha ottenuto 5.356.180, cioè quasi uno su cinque.
Un risultato a lei favorevole trainato dalle regioni settentrionali con l’eccezione della Sicilia, che mostra un aspetto, finora mai verificatosi, insito nella duplicità del gioco politico delle primarie: strumento per eleggere il segretario, ma anche trappola che rende il Pd vulnerabile da una scalata dall’ “esterno”, sospinta dell’umore di una base larga che si ribella alle indicazioni del partito degli iscritti. Vero è che gli elettori alle primarie scarseggiano sempre più (dai tre milioni e mezzo per incoronare Walter Veltroni si è passati al milione e seicentomila elettori del 2019, quando fu eletto segretario Nicola Zingaretti), ma il dato va anche valutato tenendo conto del proporzionale calo d’interesse per la politica partitica col relativo incremento dell’astensionismo.
Illusione! Dolce chimera sei tu!
Nella campagna per l’elezione del segretario il dibattito politico e programmatico è stato via via sostituito dal confronto tra personalità, fino a ridursi al personalismo politico, tipico di questo periodo di profonda crisi della politica, che ha visto emergere leader costruiti sulla persona, a cominciare da Silvio Berlusconi, passando per Renzi, Salvini, fino al recente caso di Giorgia Meloni. Sovente caratterizzati per repentine ascese elettorali o nei sondaggi e da altrettanti rocamboleschi ridimensionamenti dovuti a un elettorato che scorre veloce da un contenitore politico all’altro.
Il voto a Elly Schlein contiene il bisogno di ridefinire ruoli e funzioni del partito mosso da un disorganizzato movimento di coscienza, legato a un filo di speranza, che spinge a progetti nuovi. Nel passato novecentesco questo sarebbe avvenuto attraverso un congresso a tesi nel quale ridiscutere e rilanciare le ragioni dell’esistenza del partito. Oggi, in linea coi tempi, si manifesta con le primarie, centrate sulla personalizzazione della politica nella figura di una candidata. È una speranza che muove contro un apparato organizzato che, seppure scosso, ha dei punti in più rispetto a chi è disorganizzato. Singolare la dichiarazione rilasciata tempo fa da uno dei candidati, Gianni Cuperlo, al Corriere della Sera del 5 febbraio 2023: “dietro i candidati del Pd si ripara l’establishment, quello che ha passato ogni tempesta senza mai bagnarsi”.
Il segno del voto di chi ha affollato i gazebo e le sedi del PD è la richiesta di una linea più a sinistra, ecologista e femminista. Già Bersani e Zingaretti suscitarono aspettative del genere per poi deluderle immediatamente. Oggi personalità forti delle correnti, soprattutto quelle che hanno puntato su chi ha vinto, festeggiano la vittoria di chi ha promesso di cambiare i nomi più che il nome del Pd, di chi dice basta al partito “dei cacicchi e capibastone” (La Stampa 25 febbraio 2023). Le correnti son come talpe che scavano sotto la superficie dell’apparenza, cioè di quel mondo-spettacolo nel quale tutti dicono di volerle cancellare. Invece s’interrano, scavano ricongiungendosi nel sostegno di questo o di quel candidato. Quel rito stanco, quel film vecchio, proiettato per illudere chi ha sperato che la sconfitta elettorale costringesse a una discussione e a un’analisi politica, si è ribaltato caoticamente addosso a chi lo ha promosso.
Il Pd che aveva votato per la continuità rappresentata da Stefano Bonacini esce frastornato. L’ala più liberal-riformista messa all’angolo da quella movimentista, col rischio che il partito si rinchiuda in un’area liberal di sinistra, concorrenziale e vicina ai Cinquestelle, più distante invece dai cugini del Terzo polo. La vincitrice punta a schierare il partito a sinistra; d’altronde, che può fare un partito governativo per eccellenza, quando è cacciato all’opposizione da un governo di destra? E in quella posizione risulta facile schierarsi contro il lavoro precario, i contratti a termine, e a favore del reddito di cittadinanza, per un cambio di passo sui migranti, per lo jus soli, per i diritti civili, per la legalizzazione della cannabis, per un atlantismo mantenuto ma presentato con grazia e bon ton che tenga conto del fatto che gli elettori del Pd figurano tra i più favorevoli all’invio di armi (52% contro il 36%), secondo il recente sondaggio Ipsos. Così come con un decennio di ritardo, dopo aver plaudito, propone modifiche alla legge Fornero, auspica nuove politiche energetiche spingendo sulle rinnovabili, con uno stop a nuove trivellazioni e al nucleare, ora che le vuole fare la destra.
La sfida tra schieramenti da vecchie talpe sotterranee non è finita. Proveranno a condizionare la nuova segretaria e le persone del suo entourage, per ricollocare nei fatti, non immediatamente nelle parole, il Pd nell’ambito della sinistra di un eventuale schieramento progressista. Smussando la sua vittoria, per ricondurla alla ragione neoliberista e guerrafondaia che abbiamo conosciuto dal 2008 a oggi, da Veltroni a Renzi e Letta, dal governo Monti a quello Draghi.
*storico, membro di Sinistra Anticapitalista e collaboratore di Solidarietà, il mensile dell’MPS