La vicenda sviluppatasi attorno al problema della nomina del nuovo governo francese si ingarbuglia sempre più. Come abbiamo riferito, venerdì scorso, durante il suo incontro all’Eliseo, Lucie Castets, la candidata premier indicata unitariamente dal Nuovo Fronte Popolare (NFP), ha chiesto a Emmanuel Macron di nominarla primo ministro, affermando che il capo dello stato “non deve interferire nel dialogo politico tra i partiti”, con il rischio di cambiare “la natura della carica presidenziale”. Secondo l’esponente della sinistra, il compito di Macron “non è quello di giudicare la qualità del nostro progetto, cosa che spetta al popolo; il suo ruolo è quello di garante delle istituzioni”.
Ovviamente il NFP ha chiaro che in parlamento non esiste una maggioranza di sinistra e che occorrerà “costruire maggioranze con gli altri gruppi repubblicani nell’assemblea” e che le delicate questioni di “politica estera e di difesa” saranno oggetto di “stretta consultazione” tra il governo e il presidente.
Nonostante che venerdì 23 agosto, dopo un’ora e mezza di colloquio con Macron, all’uscita dal palazzo dell’Eliseo la delegazione del NFP (composta, oltre che da Lucie Castets, dai leader dei quattro partiti della coalizione: LFI, PS, Verdi, PCF), abbiano riconosciuto che la “discussione era stata molto ricca”, Macron ha escluso la nomina di un primo ministro proveniente dal NFP, affermando che la coalizione sarebbe stata defenestrata da un’immediata mozione di censura non appena chiamata al governo, come preannunciato sia dai gollisti di Laurent Wauquiez sia dal blocco di estrema destra di Marine Le Pen e Jordan Bardella.
Dunque, per Macron il Nuovo Fronte Popolare, con il suo gruppo di maggioranza relativa di 193 deputati, non è in grado di guidare il paese. Nel suo comunicato, il presidente afferma esplicitamente di “aver preso atto che un governo basato unicamente sul programma e sui partiti proposti dall’alleanza con il maggior numero di deputati, il Nuovo Fronte Popolare, sarebbe immediatamente censurato da tutti gli altri gruppi rappresentati all’Assemblea Nazionale” e che, quindi, “un tale governo avrebbe immediatamente una maggioranza di oltre 350 deputati contro di lui, che gli impedirebbe di agire” e che perciò “la stabilità istituzionale del paese impone di non perseguire questa opzione”.
Il tal modo il presidente “dimezzato” dai ripetuti insuccessi politici ed elettorali cerca di scaricare su fatti obiettivi la sua opposizione a riconoscere i risultati delle urne del 7 luglio.

A quasi tre mesi dallo scioglimento dell’Assemblea nazionale e a più di cinquanta giorni dalle elezioni politiche che hanno dato la maggioranza (seppure solo relativa) alla coalizione della sinistra, la Francia, la cui costituzione della Quinta Repubblica era considerata un modello di stabilità e di “governabilità”, è ancora senza governo.
Macron ha sul tavolo varie opzioni, ma tutte estremamente problematiche. Si è già detto della difficoltà di un governo di sinistra, con un programma radicale, evidentemente inviso al presidente e in balia delle mozioni ostili delle varie destre, e con Lucie Castets che, giustamente, non sembra disponibile ad allargare la sua base parlamentare, né rivolgendosi ai centristi di Liot né all’ala “sinistra” dei macronisti (come sotto sotto consigliato da François Hollande, l’ex presidente socialista ritiratosi dalle elezioni presidenziali del 2017, prima di essere ignominiosamente sconfitto).
Ma altrettanto complicate sono le altre ipotesi. Quella chiaramente preferita dal centro macroniano: un governo che vada dalla destra repubblicana ai socialisti, sul modello della Grosse Koalition tedesca, sapendo che la somma dei deputati macronisti (166), dei gollisti (47), di Liot (22) e del PS (66) potrebbe contare su 301 voti. Ma questa opzione si è scontrata con la riluttanza dei partecipanti ipotizzati: a destra come a sinistra, nessuno vuole apparire troppo legato a un partito macronista sconfitto tre volte alle urne, la cui sopravvivenza è solo dovuta alla paura del prevalere dei due “estremi”.
L’ultima opzione possibile è quella di un governo dichiaratamente minoritario, che si affiderebbe alla “buona volontà” del Rassemblement National, dei Repubblicani e, perché no, di parte della sinistra. Alcuni deputati macroniani l’hanno esplicitamente perorata: “una soluzione con un primo ministro che abbia esperienza parlamentare, indifferentemente di centro-destra o di centro-sinistra, e a cui l’Assemblea darebbe una possibilità”.
I gollisti “repubblicani”, guidati da Laurent Wauquiez sarebbero disponibili a una sorta di appoggio esterno a un governo macroniano minoritario sostenuto da un “patto di legislatura”, a cui potrebbero aderire anche gli ex socialisti (che hanno lasciato il PS in opposizione all’alleanza con LFI), ma “senza impegnarsi a votare sul bilancio o a sostenere strutturalmente il governo”. Il capofila di questi ex socialisti, l’ex premier Bernard Cazeneuve, fa trapelare di essere “totalmente disponibile”.
Peraltro, come temuto da più parti, il PS sembra mostrare qualche primo pur flebile segno di cedimento. Alcuni esponenti socialisti hanno criticato il segretario Olivier Faure per non aver assunto una linea indipendente dal complesso del NFP durante le consultazioni con Macron, e altri hanno dato in questi giorni segnali di ripresa di discussione con i macronisti, tanto che un anonimo esponente dell’entourage presidenziale ha stigmatizzato chi si fossilizza nella “visione bipolare tipica della Quinta Repubblica e non riconosce il nuovo contesto e si rifiuta di accettare una coalizione”.
Ma anche questa insidiosissima ipotesi si scontra con la granitica indisponibilità dell’estrema destra, del tutto contraria a “inquinarsi” in un’ipotesi di governo ambigua e penalizzante. Anche qui, per Marine Le Pen è preziosa l’esperienza di Giorgia Meloni e dei successi ottenuti riuscendo a non coinvolgersi nel governo Draghi.
Così, già lunedì, Jean-Luc Mélenchon, il leader de La France insoumise, e Manuel Bompard, il coordinatore dell’organizzazione, commentando il rifiuto di Macron di nominare Lucie Castets, hanno denunciato “un inaccettabile colpo di forza antidemocratico”, hanno chiesto che “la risposta popolare e politica della società francese sia rapida e ferma di fronte all’eccezionale gravità della situazione”, e hanno aderito all’iniziativa nazionale già indetta per sabato 7 settembre da alcune associazioni giovanili nelle quali LFI ha da tempo un influenza egemone, tra le quali l’Unione degli studenti universitari (UNEF) e il Sindacato delle scuole superiori (USL).
L’iniziativa ha per il momento fatto emergere altre divergenze, dato che né il PCF né i Verdi sembrano voler aderire alla manifestazione del 7 settembre, mentre il Partito socialista, attraverso il suo segretario nazionale Pierre Jouvet, ha escluso l’opzione di scendere in piazza “in questa fase”, aggiungendo che “l’urgenza è nel dibattito, nella discussione politica, anche se la scelta fatta da Emmanuel Macron ci preoccupa profondamente”.
*articolo apparso sul sito Refrattario e Controcorrente il 28 agosto 2024