Il ricercatore Thomas Posado analizza il divario tra gli inizi del chavismo e la “repressione selettiva” attualmente esercitata dal regime di Maduro contro l’opposizione e i movimenti sociali. Maduro è stato appena rieletto dopo un risultato elettorale contestato.
Un’opposizione unita, un Paese esasperato da una situazione economica disastrosa, sondaggi lusinghieri… Gli ingredienti per un cambio di governo in Venezuela, un quarto di secolo dopo la vittoria di Hugo Chávez alle elezioni presidenziali del 1998, sembravano esserci. Tuttavia, il Consiglio nazionale elettorale (CNE) ha annunciato la rielezione del suo successore, Nicolás Maduro, con il 51% dei voti.
Sulla validità dei risultati, ottenuti comunque al termine di una competizione elettorale scorretta, grava sospetti. La deriva autoritaria degli eredi del chavismo è in atto da ormai circa dieci anni, sullo sfondo di un processo di captazione e privatizzazione dello Stato iniziato molto presto.
Thomas Posado, docente di civiltà latinoamericana all’Università di Rouen, è autore di Venezuela: de la Révolution à l’effondrement. Le syndicalisme comme prisme de la crise politique (1999-2021) (Presses universitaires du Midi, 2023). Vi si spiega come la situazione venezuelana illustri, in termini particolarmente catastrofici, “il ridotto margine di manovra di cui godono ora i governi progressisti in America Latina”.
La vittoria di Nicolás Maduro è stata contestata dall’opposizione e messa in discussione da molti Paesi. A questo punto, cosa si può dire sull’affidabilità di questi risultati?
Per il momento non ci sono risultati dettagliati, quindi è difficile confermare o respingere i brogli. La pubblicazione di questi risultati dettagliati è stata infatti richiesta dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. È stata richiesta anche dalla Colombia.
Al pari di queste cancellerie, possiamo almeno dire che il risultato ufficiale è sorprendente. Sembra contraddire le dinamiche delle campagne elettorali osservate sul campo, le stime dei più seri istituti di sondaggi del Paese e persino alcuni risultati locali che ci sono pervenuti, con le roccaforti chaviste in vantaggio su Edmundo González Urrutia, il principale avversario di Maduro.
Il fatto stesso che i risultati siano oggetto di contestazione è un segno del declino del regime?
In ogni caso, questa è una differenza molto grande tra la presidenza di Hugo Chávez [1999-2013 – N.d.T.] e quella del suo successore Nicolás Maduro. Nel complesso, sotto Chávez la volontà della maggioranza è stata rispettata. Ha perso solo una volta un referendum nazionale, nel 2007, e ha ammesso la sconfitta, anche se ha cercato di far passare alcune proposte indicendo un altro referendum due anni dopo.
Dopo la sua elezione nel 2013, Maduro ha fatto costantemente ricorso a vari metodi autoritari per sfuggire alle sanzioni elettorali. Il suo campo è stato sconfitto alle elezioni legislative del 2015, ma ha privato la nuova Assemblea dei suoi poteri. L’opposizione ha quindi scelto di boicottare le elezioni, in verità con l’incoraggiamento di Maduro.
Per le elezioni del 2024, l’equità del voto è stata minata da una serie di tattiche da parte del governo. La libertà di candidatura è stata violata: il candidato definitivo dell’opposizione è stata solo una terza scelta dopo l’ineleggibilità imposta ai suoi predecessori [María Corina Machado e poi Corina Yoris – n.d.r.], e sono state impedite anche le candidature chaviste critiche.
Un altro esempio: solo 69’000 elettori sono stati autorizzati a votare all’estero, nonostante il fatto che 5 milioni di venezuelani in età di voto vivano fuori dal Paese e che questo sia un terreno fertile per l’opposizione. Infine, sono stati effettuati 150 arresti per indebolire la campagna di González.
L’elezione di Chávez alla presidenza del Venezuela alla fine del 1998 ha segnato l’apertura di un ciclo progressista di due decenni in America Latina, seguito da un periodo più caotico. In che modo il destino del regime ha illustrato questa dinamica e quali sono stati i suoi tratti distintivi?
Agli inizi del chavismo, negli anni Duemila, la popolazione e i movimenti sociali hanno conquistato diritti e dignità grazie alla loro mobilitazione, superando gli ostacoli istituzionali incontrati, sventando due tentativi delle élite economiche di rovesciare il nuovo governo e vincendo tutte le sfide elettorali.
Questa dinamica ha caratterizzato la prima fase dei governi progressisti nel subcontinente. Il prezzo delle materie prime, come il petrolio in Venezuela, era alto e permetteva di distribuire ricchezza ai poveri senza togliere veramente ai ricchi. Molte delle esperienze progressiste hanno quindi potuto fare a meno di una vera riforma fiscale, circostanza mascherata dall’attuazione di politiche comunque favorevoli alle classi popolari.
Oggi, il gruppo dirigente attorno a Maduro si è abbarbicato al potere e lavora piuttosto per ostacolare la mobilitazione sociale e impedire l’emergenza di qualsiasi serio oppositore. Una nuova élite economica tende addirittura ad andare d’accordo con Maduro e guarda con favore a una certa stabilità del potere politico. Le politiche economiche perseguite dal 2018 in Francia sarebbero qualificate come liberali.
La situazione in Venezuela è un riflesso, in una variante particolarmente catastrofico, del ridotto margine di manovra di cui dispongono oggi i governi progressisti in America Latina. La situazione economica si è ribaltata negli ultimi dieci anni e, laddove c’è stato un cambio di governo, questi hanno dovuto fare i conti con una possente ripresa elettorale di una destra restauratrice.
La “rivoluzione bolivariana”, che avrebbe dovuto costruire il “socialismo del XXI° secolo”, si è risolta in un disastro economico senza precedenti in un periodo di pace e in un massiccio esodo migratorio. Come definirebbe ciò che è diventato il regime inaugurato da Chávez?
Non c’è mai stata una vera società socialista. I ricchi e i poveri si sono arricchiti, ma i ricchi non hanno sofferto. Alla fine della presidenza di Chávez, la quota prodotta dal settore pubblico era la stessa che all’inizio della sua presidenza. Durante la presidenza di Maduro, c’è stato un chiaro aumento, dovuto essenzialmente a un crollo più lento del settore pubblico rispetto a quello privato. Non c’è mai stata un processo di socializzazione dell’economia, nonostante le nazionalizzazioni tuttavia troppo marginali per fare la differenza.
Il controllo sui cambi, introdotto nel 2003, ha avuto effetti devastanti a lungo termine, nel senso che la concessione di dollari sovvenzionati, ai privati e soprattutto alle imprese, ha dato vita a traffici e a un calo della fiducia nella moneta già prima della morte di Chávez nel 2013. La valuta ha iniziato a crollare nell’estate del 2012, ancor prima dei prezzi e della produzione del petrolio e delle sanzioni statunitensi. Da allora, ha perso il 99,9% del suo valore.
Tra il 2014 e il 2020, la ricchezza nazionale è diminuita dell’80%. Quando un Paese riesce a mantenere, nello spazio di sei anni, solo un quinto della produzione, è chiaro che non più continuare nella stessa direzione. Di fronte all’inevitabile malcontento, Maduro, privo di una leadership carismatica rispetto a Chávez, ha scelto la strada dell’autoritarismo. Oggi il Paese è governato da una “pseudo-sinistra”.
Che ruolo hanno avuto gli Stati Uniti in questo declino?
Gli USA sono un tradizionale oppositore del chavismo. Insieme alla Spagna, è stato l’unico Paese a legittimare il colpo di Stato che ha colpito Chávez nel 2002. Le loro sanzioni economiche contro il Paese, imposte nel 2017 e rafforzate nel 2019, sono gravi: illegali secondo il diritto internazionale, criminali per la popolazione e controproducenti rispetto all’obiettivo del cambio di regime. Chi è vicino a Maduro può usare la retorica antimperialista, mentre all’opposizione venezuelana non fornisce alcuna credibilità.
È vero che il collasso economico preesisteva alle sanzioni, ma queste hanno reso impossibile la ripresa. Tra l’ottobre 2023 e l’aprile 2024, tuttavia, le sanzioni sono state cautamente allentate dagli Stati Uniti. Le ragioni di questo cambiamento di posizione di Washington sono due.
Da un lato, la necessità di approvvigionarsi di petrolio in un contesto geopolitico teso in seguito della guerra in Ucraina. In secondo luogo, la questione migratoria venezuelana non è più un problema per i Paesi dell’America Latina, ma sta diventando un problema anche per gli stessi Stati Uniti. La nazionalità principale dei migranti che arrivano al confine con il Messico è quella venezuelana. Nel bel mezzo di una campagna elettorale interna, gli Stati Uniti non vogliono fornire ulteriori incentivi a lasciare il Paese.
Se il Venezuela è guidato da una “pseudo-sinistra”, quali sono le linee di divisione con l’opposizione?
La divisione verte su questioni politiche, con l’opposizione che pretende di democratizzare le istituzioni del Paese. Diciamo subito che i suoi leader non sembrano i più credibili per svolgere questa missione. Le correnti a capo dell’opposizione sono oggi le più radicali, animate da uno spirito di rivalsa e solidali con il leader argentino Javier Milei.
Anche le questioni internazionali giocano un ruolo importante nella politica venezuelana. L’elezione di González alla presidenza avrebbe segnato una svolta atlantista e occidentale. Non dimentichiamo che Juan Guaidó, l’autoproclamato presidente nel 2019, era sostenuto da sessanta Paesi occidentali. Sull’Ucraina, troveremmo imbarazzante la posizione di Maduro. Ma altrettanto imbarazzante è la posizione della sua opposizione sul conflitto israelo-palestinese.
Lei ha svolto un lavoro di ricerca sui sindacati sotto questo regime. Cosa rimane delle organizzazioni popolari e che ruolo svolgono oggi?
Non è rimasto molto, soprattutto dopo il 2007. Da questo punto di vista il chavismo è stato una tragedia. Non è servito a rafforzare le organizzazioni popolari nel lungo periodo. Sono state cooptate o represse e le richieste economiche sono state generalmente respinte in nome della priorità del mantenimento del potere.
Il sindacalismo filogovernativo è quindi diventato l’ombra di sé stesso. Il salario minimo in Venezuela oscilla tra i 3 e i 4 dollari, per un paniere di sussistenza medio di 550 dollari! Esistono ancora delle strutture autonome, rivendicative, ma sono estremamente frammentate a causa delle divisioni politiche e della repressione selettiva che devono affrontare. In Venezuela potete mobilitarvi, ma lo Stato può bloccare le vostre azioni o incarcerarvi quando vuole. Questo è sufficiente a mantenere l’ordine sociale.
In Francia e in Europa, settori della sinistra sono rimasti a lungo compiacenti, o almeno silenziosi, di fronte alle violazioni dei diritti umani e alla presa di potere e ricchezza da parte delle élite chaviste e poi maduriste. Come si può comprendere tutto ciò?
Un certo manicheismo e il fatto che il caso venezuelano sia stato strumentalizzato dalla destra liberale o fascista hanno reso difficile l’autocritica sull’argomento.
In Francia, ad esempio, La France Insoumise tende a non dire nulla sull’argomento. Jean-Luc Mélenchon, che un tempo riprendeva alcuni argomenti del regime, ora preferisce sbandierare la sinistra colombiana di Gustavo Petro. Atteggiamenti ben diversi si riscontrano in Spagna, con l’entusiastico sostegno dato al regime da Juan Carlos Monedero, ex esponente di spicco di Podemos.
In ogni caso, non ci fa bene chiudere gli occhi su ciò che è diventata l’esperienza venezuelana. Quando sosteniamo che il futuro è quello dell’emancipazione e del miglioramento delle condizioni di vita, l’esperienza venezuelano non può essere difesa per nessuno di questi aspetti.
*Thomas Posado è docente di civiltà latinoamericana all’Università di Rouen (Francia). L’intervista, condotta dal giornalista Fabien Escalona, è apparsa su www.mediapart.eu il 29 luglio 2024. La traduzione è stata curata dal segretariato MPS.