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Le scuole medie superiori, in particolare i licei, si trovano oggi al centro di una discussione e una riflessione importante. Non solo per i cambiamenti regolamentari in atto (riforma dell’ordinanza federale di maturità, Piano quadro degli studi per le scuole di maturità (PQS) e conseguente nuovo Piano cantonale degli studi liceali), ma per i mutamenti sociali che i licei stanno vivendo. Possiamo affermare che tutto questo sta configurando una vera e propria crisi del settore liceale. I nostri deputati hanno segnalato alcuni elementi in una interrogazione dello scorso mese di agosto (ancora senza risposta).
Di questi temi ha parlato Paolo Galbiati, co-presidente dell’Associazione dei docenti delle scuole medie suepriori, nell’ intervento che pubblichiamo qui di seguito, svolto in occasione dell’incontro organizzato dall’Adsms il 12 settembre scorso con la direttrice del DECS, Marina Carobbio. (Red)

L’intento di questa nostra iniziativa è quello di consentire alle docenti e ai docenti liceali di poter affrontare e approfondire, con uno sguardo al futuro, le problematiche più pressanti che il liceo ticinese sta attualmente affrontando.

Siamo ormai ad un anno e mezzo circa dall’entrata in carica della direttrice Carobbio, che dopo questo periodo di rodaggio, confidiamo sia pronta a gestire le sfide che attendono la scuola ticinese. Da molti, troppi anni ormai, si percepisce infatti in modo chiaro l’esigenza di una messa in discussione dell’intero sistema scolastico, in modo complessivo ed organico, anziché procedere come negli ultimi 20 anni, in modo scoordinato e spesso autoincentrato sulle logiche di singoli ordini scolastici.

Per quanto riguarda il liceo, nello specifico, siamo alle soglie di un periodo di riforma che potenzialmente potrebbe offrire l’opportunità di ripensare non solo al cosa e al come (programmi, griglie, regolamenti di promozione, ecc.) ma anche e soprattutto al perché. Ossia: varrebbe la pena di ridiscutere la missione stessa del liceo, che ritroviamo sì negli obiettivi -formalmente immutati rispetto al passato (la Studienfähigkeit e la Gesellschaftsreife)- ma che ora devono trovare una nuova interpretazione in uno spazio di tensione fra un complesso di teorie pedagogiche che finora non aveva investito il liceo ticinese, e una cultura pedagogica condivisa nelle sedi e fra le sedi liceali ticinesi, frutto dei precedenti referenti pedagogici, che gli insegnanti hanno assunto criticamente e integrato nella pratica quotidiana.

È evidente il divario che separa il paradigma pedagogico che trasuda dal nuovo PQS, da quella che ho chiamato cultura pedagogica, ossia il precipitato delle teorie che, col passare degli anni, sono state veicolate nelle sedi tramite nuove colleghe e colleghi che hanno portato con sé il proprio bagaglio di acquisizioni appreso durante l’abilitazione.

È diffusa e radicata nel corpo docente (e noi ne prendiamo atto come associazione che lo rappresenta) la convinzione che l’evoluzione sul piano pedagogico sia sana e rigenerante, ma che al contempo sia insidiosa laddove gli innesti di vecchie e nuove teorie vadano ad assumere carattere dogmatico, pretendendo di costituire una verità in un ambito in cui di verità non ne esistono.

Oggi ci troviamo a fare i conti con un paradigma pedagogico a carattere cognitivista che millanta pretese di scientificità e di verità, ma in realtà si è ben lungi dall’aver dimostrato che un determinato paradigma pedagogico possa essere più vero di un altro. Si tratta di un paradigma che pone al vertice la didattica, e solo in secondo piano la cultura, i saperi, e le discipline epistemologicamente fondate che ne stanno alla base. Un paradigma quindi che, potenzialmente, mostra chiare incompatibilità col modello ticinese, sviluppato sull’arco di decenni grazie ad un processo di accomodamento pedagogico che ha visto attingere alle differenti teorie per sviluppare un modello incentrato sulla cultura.

Un modello costruito dal basso, tramite il lavoro dei docenti, gli unici che hanno il polso delle esigenze che via via si presentano e rendono obsoleto questo o quel principio o metodo didattico. Gli unici che vivono la relazione con gli allievi e le loro famiglie e sanno quali sono le rinnovate esigenze individuali e sociali che impattano sui processi formativi e educativi. Gli unici che possono evitare di abbracciare indiscriminatamente un credo pedagogico anziché trarne criticamente gli elementi necessari per adattare una cultura pedagogica in continuo movimento che, peraltro, sin qui ha dato buona prova di sé.

Ricordiamo infatti che il Tessiner-Modell, sebbene risulti spesso più forte sulla carta che nella pratica, sul piano dei risultati dei nostri allievi a livello accademico, ancora regge bene il confronto intercantonale. Ma il successo del nostro modello non si misura solo sul piano operativo, del successo accademico (cioè della Studienfähigkeit), bensì anche su quello della etica e della crescita umana, sociale e politica, dell’intraducibile Gesellschaftsreife. A riprova, basti pensare all’ammirazione dimostrata dai colleghi provenienti da Oltralpe che sono venuti a visitare le nostre lezioni e si sono resi conto dell’efficacia della pedagogia ticinese sul piano della relazione intellettuale, della risonanza emotiva, dello spessore culturale, etico e sociale.

Questa lunga introduzione mi porta al primo e secondo punto della piattaforma programmatica della nostra associazione (che vi abbiamo inviato via mail), quelli appunto riguardanti tempi e modalità dell’attuazione della riforma federale.

La nostra prima preoccupazione discende dal pericolo che si crei una contrapposizione fra cultura disciplinare, da una parte, e didattica per competenze, dall’altra, laddove, nel paradigma di fondo abbracciato dalla riforma federale, la competenza viene considerata come “risorsa per le procedure di problem solving”.

Occorrerà vegliare affinché questo non accada. E questo ci porta alla seconda rivendicazione, che riguarda la gestione dell’accomodamento di questo paradigma. Ad essere investito dell’attuazione del PQS, per evitare fatali ripercussioni sulla nostra cultura pedagogica, non può essere che il docente. Occorre quindi che il Decs predisponga un meccanismo organizzativo che garantisca una preponderante rappresentatività del corpo docente, il quale deve poter lavorare in ampia autonomia rispetto alle istanze che rappresentano quello stesso paradigma, che in Ticino sono incarnate dal Dfa della Supsi, e che sono ampiamente rappresentate anche nell’organigramma del Decs.

I docenti, in forme rappresentative da stabilire, dovranno essere dotati di un ampio mandato corredato dalle adeguate risorse, finanziarie e di tempo.

Ci si attende peraltro, che a fronte delle opportunità e dei rischi legati a questo grande cantiere, si eviti la modalità un po’ dilettantesca e antiscientifica che ha caratterizzato le ultime riforme e misure adottate nella scuola ticinese.

Vogliamo credere quindi che le scelte che verranno fatte nell’ambito dell’applicazione della riforma federale in corso vengano fin da subito ponderate anche dal punto di vista delle modalità con cui porre in essere una sperimentazione e una valutazione, e che queste vengano fatte in modo scientificamente rigoroso.

Viceversa, in Ticino sembra sia andata persa la buona pratica di valutare sistematicamente e con serietà gli effetti delle scelte fatte, come ad esempio quelle che hanno portato alla nuova griglia quattro anni fa e al limite di bocciature fra il primo e il terzo anno. Modifiche solo apparentemente formali, che in realtà hanno creato forti scompensi e generato situazioni penose sul piano professionale ed umano, ma rispetto alle quali non abbiamo alcun feedback e dunque nessuna possibilità di affrontare in modo costruttivo i problemi che si sono generati.

Il terzo punto della nostra piattaforma chiede appunto di ovviare a questa lacuna rispetto alle misure prese negli ultimi anni e soprattutto di evitare che la procedura di attuazione della riforma sia vittima di questo malandazzo.

Infine, insistiamo da anni perché alla figura del docente venga restituita la centralità che tutti declamano ma che all’atto pratico viene negata, quando le decisioni e le modalità operative dell’autorità spingono il docente nel corsetto della mera operatività. Da una quindicina d’anni, sempre più, il docente va assumendo le sembianze dell’esecutore didattico di scelte fatte verticisticamente dall’autorità con la consulenza di esperti di pedagogia e didattica, spesso con scarsa o addirittura alcuna esperienza di insegnamento. Al contempo viene negata sempre più la dimensione politica del docente, che la tradizione ticinese ha visto in prima linea. La voce critica del sciur maestru è sempre stata fondamentale per le più importanti scelte sulle direttrici dello sviluppo del Paese. Non voglio sollevare qui una polemica mai sopita con il precedente direttore del Decs in merito allo stile autoritario e intimidatorio del dipartimento, ma val la pena almeno limitarsi ad osservare che sono numerosissimi i casi di docenti che dichiarano di aver paura di esprimere il proprio dissenso nei confronti delle scelte di politica scolastica e questo li spinge ad assumere quel ruolo di meri esecutori a cui mi riferivo sopra.

Ma, proprio a fronte dell’esigenza di rivalutare e riabilitare il profilo ideativo del docente sul piano della politica scolastica, così come il suo profilo politico a tutto tondo, occorre tenere conto del carico di lavoro che ha investito la categoria nel corso dei due scorsi decenni. Un fardello che spazia dalle incombenze burocratiche a quelle, a carattere socio-educativo, per poter far fronte alle nuove problematiche che investono allievi e famiglie, fino a quelle relazionali e psico-sociali per affrontare un disagio sociale ed esistenziale che si diffonde e si radica nella società e che la scuola viene chiamata ad affrontare.

Il nostro quarto e ultimo punto si concentra sul pericolo che, a fronte della necessità che il docente si faccia carico di una popolazione che si sta ammalando, a sua volta si ammali il docente. La salute del docente, e in particolare la sua salute mentale è fortemente a rischio, soprattutto fra le giovani leve e fra gli over 50. Occorre occuparsi di loro, ma non solo in chiave reattiva, ossia mettendo a loro disposizione risorse per affrontare il crescente disagio, bensì soprattutto preventiva, agendo sulle condizioni che generano burnout.  In primis, il problema di chi lavora nell’ambito sociale è quello per cui, se ci si tutela e protegge dal burnout, questo va a discapito delle persone di cui ci si deve far carico e per cui si è responsabili.

Nello specifico, dunque, in un’epoca in cui il docente deve far fronte ad un montante disagio psichico dei propri allievi, occorre ripensare alla quantità di allievi di cui il docente si può effettivamente far carico. È pura illusione, che rasenta l’ipocrisia, pensare di affidare 24 allievi ad un insegnante con la pretesa che questi possa agganciarli tutti ed evitare che qualcuno sparisca dai radar, motivandoli e offrendo loro un orizzonte di senso per contrastare il senso di estraniamento che li spinge ad arrendersi di fronte alle sfide.

Nell’ambito di quella stagione di riforme di cui si sente l’esigenza, e che deve partire da una visione d’insieme del sistema scolastico, organica e interdipendente, occorrerà dunque anche ripensare al criterio di assegnazione del mandato educativo del docente, che deve essere orientato alla persona: non più numero di ore di insegnamento ma numero di allievi di cui prendersi cura e di cui caricarsi la responsabilità educativa.

*pubblichiamo il testo dell’intervento nella forma apparsa sul sito del Movimento della scuola il 18 settembre 2024