A differenza delle decine di elezioni che si sono svolte in Venezuela nei 25 anni trascorsi dalla vittoria di Hugo Chávez nel 1998, dopo il voto del 28 luglio 2024 l’intera sinistra latinoamericana – compresi i sostenitori del “progressismo” – si è spaccata da cima a fondo.
Un settore sempre più piccolo ma ancora importante, tra cui molti intellettuali, ha fatto propria la tesi del Forum di San Paolo secondo cui, per salvare il Venezuela e la regione dall’imperialismo statunitense, bisogna sostenere a tutti i costi il governo di Nicolás Maduro. E questo significa accettare che Maduro rimanga al potere senza aver effettivamente vinto le elezioni, a differenza di quanto accaduto in passato, dal momento che finora si è rifiutato di produrre qualsiasi prova della sua vittoria.
Secondo questa logica, che si basa più su un’analisi geopolitica classica che sul marxismo, non solo tutto è uguale, ma tutti i mezzi sono buoni per “non cedere” il potere (e il petrolio) venezuelano “alla destra”. Secondo questa logica geopolitica, il fatto che Nicolás Maduro abbia vinto o perso le elezioni è secondario rispetto all’imperativo “nazionalista progressista” di evitare che l’imperialismo statunitense, incarnato dal candidato dell’opposizione Edmundo González, si insedi nel palazzo di Miraflores e metta così a rischio la proprietà statale della PDVSA (Petróleos de Venezuela SA), che possiede una delle più grandi riserve di petrolio e gas del pianeta. È vero che alcuni “progressisti” non sono tanto concentrati sul petrolio quanto sulla tragedia della sconfitta di Maduro, visto come uomo di sinistra, in un contesto di ascesa dell’estrema destra nel mondo e nella regione. Per tutti non ci sarebbe altra via d’uscita che schierarsi con Maduro; nemmeno un negoziato tra le due parti in conflitto – come proposto da Lula e Gustavo Petro – certamente per cercare una condivisione del potere tra i due campi, con garanzie di tutela dell’integrità di PDVSA e di alcune libertà democratiche.
La storia e i fatti non contano
Poniamo la domanda, per rinfrescare la memoria: qual è la linea di demarcazione tra destra e sinistra – le parole o i fatti? Maduro mantiene la sua verbosità di sinistra. Sostiene che il suo governo è una “alleanza militar-poliziesca-popolare” anti-imperialista e pro-socialista. Ha bisogno di difendere la sua legittimità in patria e all’estero come successore di Chávez, quando tutto ciò che ha fatto è stato di ridurre le conquiste e l’eredità degli anni progressivi del processo bolivariano. Al di là delle apparenze, la sua politica dal 2013 è consistita nel favorire l’arricchimento di un nuovo settore corporativo nel Paese e, come un Bonaparte, ha negoziato con le diverse frazioni della borghesia venezuelana, vecchie e nuove (con l’eccezione della parte più legata all’estrema destra yankee, ovvero Maria Corina Machado ed Edmundo González), al fine di mantenersi al governo. Parallelamente alla sua deriva apertamente autoritaria, Maduro ha sempre favorito gli affari, in particolare i servizi per l’industria petrolifera, ampiamente distribuiti tra i vertici delle forze armate e della polizia. Questa è la fonte delle sue alleanze.
Anche sotto il pesante fuoco delle sanzioni imperialiste occidentali contro il Venezuela – iniziate dall’amministrazione Obama, proseguite da Trump e alleggerite da Biden – non ha mai preso la minima misura per affrontare il sistema finanziario globalizzato e i suoi sostenitori interni. Ha destinato una parte consistente del ridotto bilancio nazionale a banche private per garantire la vendita di valuta estera a imprese private e redditieri di vario genere. In pratica, si è trattato di una politica che sovvenziona e favorisce i ricchi.
Allo stesso tempo (dal decreto 2792 del 2018), proibisce gli scioperi, l’espressione di rivendicazioni, il diritto della classe lavoratrice a mobilitarsi e organizzarsi e la legalizzazione di nuovi sindacati, mentre persegue e manda in prigione i leader sindacali che mettono in discussione le pratiche interne delle aziende o che, semplicemente, rivendicano aumento salariali e il diritto ad un’assicurazione sanitaria. È quanto è accaduto a Siderúrgica del Orinoco (Sidor), la più grande concentrazione di lavoratori del Venezuela: dopo una mobilitazione per i salari e le prestazioni sociali nel giugno e luglio 2023, gli scioperanti e i leader del movimento sono stati vittime di un’intensa repressione. Leonardo Azócar e Daniel Romero, delegati sindacali, sono stati imprigionati.
L’“antimperialismo” di Maduro e del suo entourage non gli impedisce di fornire il petrolio di cui gli Stati Uniti hanno bisogno oggi, attraverso Chevron e altre grandi compagnie straniere come Repsol, in un contesto in cui il Tesoro statunitense autorizza queste compagnie a estrarre l’oro nero venezuelano, ma vieta loro di pagare tasse e royalties al Venezuela. L’accettazione di queste condizioni neocoloniali mostra i limiti dell’antimperialismo madurista.
Le sanzioni contro il Venezuela sono state alleggerite da Biden (sotto la pressione del conflitto con la Russia), ma Maduro continua a usare le sanzioni come pretesto per portare avanti un aggiustamento strutturale che colpisce radicalmente chi vive del proprio lavoro. In termini politici, in Venezuela la retorica contro le sanzioni statunitensi (che sono reali, concrete e detestabili) ha perso la sua efficacia politica di fronte agli stili di vita oltraggiosamente sfarzosi di coloro che ora gestiscono il Paese, con la loro quota di miliardari corrotti.
La classe operaia come complice
La situazione della classe lavoratrice venezuelana come griglia per l’analisi politica a sinistra è stata sostituita dalla narrazione pro-Maduro della “geopolitica del petrolio”. Questa geopolitica binaria vede solo la contraddizione tra l’imperialismo e lo Stato venezuelano (che è una contraddizione sicuramente importante). Ma non è sufficientemente dialettica per tenere conto, in uno scenario di contraddizioni multiple, e articolarla con la situazione materiale e politica della classe lavoratrice, le sue aspirazioni e le sue prospettive. È come se fosse una questione secondaria o una “contraddizione secondaria”. Il “mantra” pro-Maduro per omettere l’analisi di classe è la necessità di impedire alla destra di salire al potere, ignorando il fatto che il governo venezuelano sta applicando ricette economiche strutturali di destra, ammantandole di una retorica di sinistra.
Basta parlare con i lavoratori (e non con la burocrazia dei padroni della CBST) della Sidor, della PDVSA, con gli insegnanti e i docenti universitari per rendersi conto della terribile situazione materiale in cui vivono (salario minimo di 4 euro al mese, salario medio di 120 euro al mese, di cui l’80% è costituito da bonus), mentre subiscono la peggiore restrizione delle libertà democratiche da decenni che non permette loro di organizzarsi, mobilitarsi e combattere.
Sulla questione delle elezioni del 28J (28 luglio 2024), i nuovi geopolitici del progressismo si oppongono ai grandi media internazionali (CNN, CBS e altri), ma in modo speculare. Non difendono gli interessi di María Corina Machado e Edmundo González, ma quelli di Maduro e della nuova borghesia, con il falso assioma che Maduro rappresenterebbe la classe lavoratrice, senza analizzare quali siano state le politiche antioperaie e antipopolari di Maduro. Cadono nella trappola del “feticismo giuridico”, limitando la loro analisi della situazione ai risultati delle elezioni, senza criteri di classe. La questione non è solo che Maduro e il CNE non hanno dimostrato come i loro calcoli siano stati in grado di garantire al presidente la vittoria nelle elezioni del 28 luglio, ma come questa situazione influisca sulle libertà democratiche concrete con cui la classe lavoratrice agisce e sopravvive.
Se non c’è trasparenza e legittimità nelle elezioni nazionali, dove i candidati registrati rappresentavano diverse sfumature di programmi borghesi, è difficile prevedere il ripristino delle libertà democratiche minime di cui le lavoratricie e i lavorato hanno bisogno per difendersi dall’offensiva del capitale: il diritto a salari dignitosi, il diritto di sciopero, la libertà di associazione, la libertà di mobilitarsi, di esprimere opinioni e di organizzarsi in partiti politici. Sono fortemente preoccupati dal modo in cui la situazione dopo il 28J consente o limita, a breve termine, le libertà di cui ha bisogno per esprimersi come classe sfruttata. Ma questa contraddizione non entra nella logica e nel discorso della nuova geopolitica progressista.
Omissioni e silenzi compromettenti
A questi “progressisti” importa poco che l’organizzazione sindacale e politica dei lavoratori e del popolo sia stata repressa, o che Maduro abbia impedito a qualsiasi settore di sinistra del PSUV di partecipare alle ultime elezioni del Paese – arrivando a infiltrare, perseguire e attaccare la leadership del Movimento Elettorale Popolare (MEP), del Partito Patria per Tutti (PPT), dei Tupamaros e del Partito Comunista del Venezuela (PCV), a sua volta sotto amministrazione fiduciaria! I sostenitori di Maduro omettono di dire che dopo il 28 luglio il governo ha intensificato la repressione, non più contro la classe media, ma contro la classe lavoratrice, mandando in carcere circa 2’000 giovani con pene presentate come “rieducative”, il che significa sottoporli a vessatori rituali pubblici di lavaggio del cervello.
Tacciono sulla costruzione di due carceri di massima sicurezza per chi viene sorpreso a protestare o incitare alla protesta sui social network. Ignorano l’incarcerazione di diversi politici dell’opposizione e le minacce dirette lanciate in televisione contro altri – come quelle pronunciate da Diosdado Cabello, il ministro del “martello”, ni confronti dell’ex sindaco di Caracas, Juan Barreto, o di Vladimir Villegas, fratello del ministro della Cultura e presidente di una commissione parlamentare. Se la minaccia per i personaggi pubblici è grande, lo è ancora di più per le persone comuni che non sono personaggi mediatici. Di recente abbiamo assistito al dispiegamento di forze di sicurezza in borghese per minacciare gli attivisti, come è accaduto sabato contro Koddy Campos e Leandro Villoria, leader della comunità LGBTQI di Caracas. Nei giorni successivi, nella tradizionale roccaforte chavista del “23 de Enero” (quartiere “23 febbraio”) di Caracas, le case degli attivisti sono state etichettate da agenti governativi per spaventarli e scoraggiarli dal manifestare.
La “sinistra geopolitica” tace sul numero di morti dopo il 28J (più di 20, secondo le stime delle organizzazioni per i diritti umani e dei movimenti sociali), riprendendo la narrazione che si trattava solo di persone di destra. Questo non solo è falso, ma rappresenta un passo indietro in termini di diritti, rispetto ai progressi compiuti durante i periodi post-dittatura nella regione.
I sostenitori del “progressismo geopolitico” riproducono il miraggio di un governo popolare che non esiste più, cancellato dall’atteggiamento camaleontico e dalle politiche antioperaie di Maduro. Accettano le lotte della classe lavoratrice venezuelana solo nel quadro consentito da Maduro, per promuovere all’estero un’immagine che non possono costruire nel proprio Paese. Questo progressismo si rifiuta di vedere che, mentre i maduristi hanno account certificati (a pagamento) sui social network, il governo censura il contenuto delle opinioni dei settori popolari (con account gratuiti). Non significa nulla per loro il fatto che il governo abbia sospeso le reti X e Signal per 10 giorni (e forse più) mentre tutti gli alti funzionari pubblici le mantengono con le VPN (bloccate per il popolo).
E il petrolio?
Tutti i fatti gravi di cui sopra sono considerati dai sostenitori della “vittoria” di Maduro come dettagli secondari di “democrazia formale” di fronte al pericolo di avere di nuovo la “sordida” destra al governo del Venezuela. Il ragionamento è tanto privo di criteri di classe quanto di una visione lucida della realtà effettiva del Paese.
Dal novembre 2022, nel contesto della guerra in Ucraina, il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti ha autorizzato la Chevron a esplorare ed esportare il petrolio venezuelano, a condizione che la compagnia non paghi tasse o royalties al governo venezuelano. Si tratta di accordi neocoloniali inauditi anche ai tempi dei governi che hanno preceduto Chávez e che sono stati accettati da Maduro. Da allora, il Venezuela è tornato a essere un fornitore stabile di petrolio per il Nord America. Questo spiega perché Biden si sta togliendo i guanti e perché la triade “progressista” di Lula, Petro e AMLO (da cui AMLO si è ritirato la scorsa settimana) sta trascinando i piedi nel posizionarsi.
Dobbiamo essere cauti quando parliamo dell’embargo statunitense sul Venezuela. Esistono due tipi di embargo. Quello che ha colpito i prodotti alimentari, le medicine e i pezzi di ricambio per autobus e automobili (che permettevano alla popolazione di muoversi) ha contribuito in modo decisivo all’esodo di quattro o cinque milioni di persone. Ma il Venezuela è riuscito a diventare il sesto fornitore di petrolio degli Stati Uniti, superando Paesi come il Regno Unito e la Nigeria.
In Venezuela, la posta in gioco è la lotta tra i divesi settori delle classi dominanti per controllare il commercio del petrolio, cioè tra la vecchia e sordida borghesia oligarchica da e i nuovi settori legati all’esercito “bolivariano”, arricchitisi sotto Maduro. Si tratta quindi di un conflitto su chi si aggiudica la parte del leone dei proventi del petrolio. Tutti garantiranno la fornitura di petrolio alle potenze capitalistiche occidentali, ineludibile dal punto di vista geostrategico, e tutti limiteranno sempre più la distribuzione dei proventi petroliferi al popolo – perché questo è nella natura dei settori capitalistici e borghesi, e perché la natura dello Stato, mono estrattivista ed esportatore di combustibili fossili, non è stata cambiata dal processo bolivariano. E infine perché Maduro, nonostante la sua retorica, non è né socialista né antimperialista. È ingenuo immaginare che Maduro difenda un programma e abbia abbastanza coraggio da affrontare i piani imperialisti per rimettere sul mercato mondiale il petrolio che il Venezuela può produrre. È un errore madornale chiudere gli occhi, in nome di una presunta sovranità, sulle crescenti tendenze autoritarie del regime di Maduro nei confronti dei lavoratori e del popolo disaffezionato.
Tragicamente, è anche utile per i geopolitici maduristi continuare a credere che la salvezza del Venezuela derivi da quella che, in realtà, è la sua maledizione storica: la sua ricchezza petrolifera. Un elemento che anche il grande sviluppista brasiliano Celso Furtado, senza essere un socialista o un ecologista, aveva già indicato come un grande problema per il Paese in cui viveva negli anni Cinquanta.
C’è una via d’uscita?
La forza acquisita dall’opposizione di destra, sconfitta alle urne più volte da Chávez e una volta da Maduro, e ora guidata dall’oligarca estremista Maria Corina Machado, rappresenta una vera e propria tragedia. Il fatto che l’estrema destra sia riuscita a vincere o a sfiorare la vittoria alle elezioni – non c’è altra ragione per l’ostinazione di Maduro nel negare i risultati e nel reprimere così duramente la popolazione – è una tragedia ancora più grande. Una soluzione pacifica è difficile da trovare, e non possiamo accettare il passaggio del governo all’estrema destra; la strada, per evitare il “bagno di sangue” che entrambe le parti minacciano per il Venezuela, potrebbe quindi essere quella indicata dai governi brasiliano e colombiano: una presentazione dei risultati, un negoziato tra le due parti, in primo luogo con Maduro stesso (il gruppo al potere si rifiuta di dialogare e di esaminare i risultati presentati dall’opposizione). Se è possibile ottenere, nei negoziati, libertà democratiche minime, la liberazione dei prigionieri politici, la fine della repressione e un’ampia libertà sindacale e partitica, è anche possibile ottenere clausole che proteggano PDVSA.
Per il momento, sostenere la soluzione negoziale proposta da Colombia e Brasile – che gode dell’appoggio del Cile e del rifiuto, ovviamente, del dittatore Daniel Ortega – è la politica giusta, perché è molto più prudente, pertinente e favorevole ai lavoratori e al popolo del Paese. Questa politica si oppone a un regime sempre più autoritario, che reprime i giovani, i sindacalisti e gli oppositori di sinistra, ed è meno ingenua e burocratica della semplice convalida delle irregolarità e dell’arbitrio del governo. Permette di opporsi allo smantellamento da parte dell’estrema destra di PDVSA e delle poche conquiste sociali rimaste, senza partire dall’errata premessa che Maduro e il suo entourage militare borghese-burocratico garantiscano la “sovranità” venezuelana su qualsiasi cosa.
Sovranità nazionale e sovranità popolare
Il “progressismo latinoamericano”, come il terzomondismo e la sinistra stalinista, usa il termine sovranità per indicare due cose diverse: sovranità nazionale e sovranità popolare. Naturalmente, la sovranità nazionale è generalmente una condizione per il pieno esercizio della sovranità popolare. Il problema è che i regimi (e i movimenti di opinione) più diversi, progressisti o reazionari, si appropriano della difesa della sovranità nazionale di fronte alle pressioni del mercato globale e dell’imperialismo.
La sovranità nazionale è stata al centro dei movimenti anticoloniali e di indipendenza nazionale, nonché dei regimi populisti impegnati nello sviluppo nazionale nel XX° secolo. Ma è anche stata ed èal centro della difesa di dittature militari – come quelle del Cono Sud dell’America Latina negli anni Sessanta – di dittature teocratiche – come l’Iran – di burocrazie statali e, come vediamo con Modi e Trump, di governi di estrema destra. Sì, la difesa della sovranità nazionale e persino il confronto con l’imperialismo possono essere condotti sotto regimi molto regressivi. Per noi, la difesa della sovranità nazionale ha senso solo se unita alla difesa della sovranità popolare, all’autorganizzazione democratica delle masse, alla conquista di libertà e diritti che rafforzano il blocco storico delle classi popolari, che possono costruire alternative al capitalismo globale e agli imperialismi che lo strutturano.
Allo stesso modo, soprattutto dopo le esperienze staliniane del XX° secolo, non possiamo identificare meccanicamente i popoli con i loro leader politici; la questione se questi li rappresentino o meno richiede un’osservazione dinamica del loro rapporto. Quando questo rapporto si rompe – come si è rotto o si sta rompendo in Venezuela – le libertà democratiche diventano un fulcro fondamentale per qualsiasi lotta per la sovranità, sia essa popolare o, in seconda battuta, nazionale. Di conseguenza, non ci saranno forze per garantire la sovranità del Venezuela sul suo territorio e sulle sue ricchezze senza il recupero della sovranità popolare.
La democrazia non è importante?
I regimi democratico-borghesi non sono i regimi a cui noi socialisti aspiriamo strategicamente: sogniamo e lottiamo per costruire organizzazioni democratiche di base, democrazia diretta, potere popolare, come embrioni di una nuova e più vitale forma di democrazia, esercitata dai lavoratori e dai settori popolari, in processi militanti, offensivi e rivoluzionari. Ma la democrazia formale è così spregevole da non dare importanza alle elezioni, all’educazione o ai risultati truccati?
In un mondo sempre più minacciato da una costellazione di forze di estrema destra, la nostra lotta implica la difesa a lungo termine dei diritti e delle libertà democratiche, e persino delle istituzioni dei regimi democratici borghesi, contro l’assalto dell’estrema destra – come abbiamo già sperimentato con Trump, Bolsonaro, Erdogan, Orbán e così via.
Cosa dobbiamo pensare di una sinistra che disprezza la democrazia al punto da tollerare la manipolazione delle elezioni di fronte ai popoli e ai lavoratori del mondo e nei Paesi (sempre più numerosi) in cui la lotta contro l’estrema destra è fondamentale? I settori che si definiscono di sinistra e che sostengono i regimi repressivi saranno mal posizionati, da un punto di vista strategico, nel necessario processo di costruzione politica, teorica e pratica di una nuova utopia anticapitalista, che dovrà coinvolgere ampi strati di giovani, donne e lavoratori. Una nuova sinistra anticapitalista di massa deve essere democratica, indipendente e confrontarsi con “modelli” autoritari, altrimenti non esisterà.
Ma resta una domanda che dovrebbe essere la più importante per ogni attivista e per ogni organizzazione socialista in America Latina e nel mondo: come rispondere alle aspettative dei lavoratori, del popolo e di ciò che resta della sinistra non burocratica in Venezuela? I settori a sinistra del PSUV e i critici silenziosi all’interno del PSUV stesso – frammentati, perseguitati, alcuni imprigionati, ma con un gran numero di persone ancora attive contro la dittatura – saranno abbandonati al loro destino? Da parte nostra, sostenere le loro lotte, incoraggiare la loro unità di resistenza, aiutarli a sopravvivere e a respirare è il compito internazionalista prioritario. Tutto ciò che non tiene conto di loro può essere una questione di geopolitica, ma non è internazionalismo dal basso. In fondo, l’unica garanzia strategica di un Venezuela sovrano, di migliori condizioni di vita e di lavoro, di riorganizzazione e di potere popolare a medio termine, è nelle mani dei settori sociali e politici che sono stati protagonisti degli anni d’oro del processo bolivariano, e non nelle mani dei becchini di quel processo.