La massiccia mobilitazione democratica che ha investito la Turchia dopo l’arresto di Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul e candidato del CHP (Partito della Repubblica e del Popolo, centro-sinistra), rappresenta un evento sociale e politico di grande importanza alle porte dell’Unione Europea. In tutto il Paese si sono svolte manifestazioni e raduni, con una partecipazione molto importante, in particolare nella piazza Saraçhane di Istanbul, davanti al municipio. L’inasprimento del regime di Erdogan, che con questo arresto ha superato una linea rossa senza precedenti, mette in discussione le informazioni degli ultimi mesi su un processo di pace avviato con il movimento nazionale curdo della Turchia, in particolare con l’organizzazione politico-militare centrale all’interno di questo movimento: il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Si tratta di comprendere questo contesto con due dinamiche apparentemente contraddittorie al fine di cogliere le potenzialità e le insidie che questa corrente di movimento sta affrontando, di cui sarebbe molto azzardato prevedere le conseguenze nel momento in cui questo articolo viene scritto.
Da un’elezione all’altra
È necessario ricordare un dato fondamentale: le elezioni in Turchia sono state finora competitive e sono oggetto di un forte investimento civico da parte di una società fortemente politicizzata. Ho già accennato a una “cultura democratica minima ma solida” tra la popolazione turca in Turchia. È vero che ciò non ha impedito alla maggioranza della popolazione di rimanere globalmente passiva riguardo alle condizioni profondamente inique di un’elezione, non solo in termini socio-economici, come in ogni democrazia liberale, ma soprattutto riguardo alla repressione diretta e indiretta contro le forze di opposizione, a maggior ragione se colpisce una minoranza curda che subisce un’oppressione coloniale.
Questa popolazione ha quindi accettato (senza necessariamente approvarlo, ma lasciando fare) che i risultati delle ultime due elezioni locali nelle località curde siano stati sostanzialmente annullati e che, in una logica puramente coloniale, i sindaci regolarmente eletti vengano imprigionati e sostituiti da amministratori nominati dal governo. Ma questa cultura porta inoltre a dare un’importanza cruciale alle elezioni competitive considerandole come una sorta di “giudice di pace” che decida a chi compete la direzione dello Stato; per questo sul tema elettorale vi è un grande investimento. Prova ne sia che il tasso di partecipazione alle elezioni non è mai sceso al di sotto del 76% (una cifra che non può essere considerato il riultato di manipolazioni o frodi: la mobilitazione degli elettori è sotto gli occhi di tutti) e si attesta regolarmente a oltre l’85% da 45 anni.
Dopo il cocente fallimento delle elezioni generali del 2023, che hanno visto la rielezione di R. T. Erdoğan e una maggioranza indebolita ma riconfermata, il CHP decide di tenere un congresso… con a capo Kemal Kiliçdaroğlu che, fedele alla tradizione dei leader del suo partito di non assumersi alcuna responsabilità per le sconfitte elettorali, si prepara a essere rieletto presidente del partito. Tuttavia, lo shock del fallimento e la gestione disastrosa del periodo tra le elezioni generali e il congresso[1] gli fanno perdere gran parte della sua credibilità politica. Ne risulta un elettroshock senza precedenti all’interno del CHP con la costituzione di un’opposizione di “rinnovatori” riuniti attorno al sindaco di Istanbul eletto nel 2019, Ekrem Imamoğlu, e al suo alleato, il presidente del gruppo parlamentare, Özgür Özel.
Nel novembre 2023, per la prima volta in un secolo di esistenza, un presidente uscente di partito è stato sconfitto durante un congresso e il CHP è passato sotto la direzione dalla coppia Özel, come presidente, e Imamoglu, la principale figura pubblica. Quali sono i cambiamenti che questa nuova direzione di “rinnovatori”, provenienti comunque dall’apparato, ha messo in atto? Si tratta di due aspetti. Da un lato, una maggiore professionalità nella direzione del partito e la messa in tensione di un apparato pesante che conta 1,5 milioni di iscritti. Dall’altro, un’apertura più esplicita nei confronti dei curdi della Turchia. La nuova direzione rifiuta di ostracizzare il DEM (Partito per l’uguaglianza e la democrazia dei popoli, nato dalla movimento nazionale curdo e democratico), e Imamoglu, ad esempio, ha dichiarato nel corso di un dibattito pubblico, che sarebbe “una follia” considerare “terrorista” un partito che ottiene 5 milioni di voti[2].
È con questa squadra rinnovata che il CHP ha affrontato le elezioni locali del 2024, che R. T. Erdoğan si era impegnato a vincere la sera stessa della sua rielezione, puntando in particolare alla riconquista di Istanbul. Gli analisti dell’opposizione non guardavano a queste elezioni con molta speranza, poiché l’obiettivo principale era quello di mantenere le posizioni del 2019. La sorpresa è stata l’opposto di quella del 2023: un enorme affronto per il regime e un clamoroso successo per il CHP, che si è simbolicamente portato in testa alle elezioni.
Da parte sua, Ekrem Imamoğlu ha facilmente superato il suo avversario dell’AKP e ha ottenuto un’ampia maggioranza nel consiglio comunale (di cui non disponeva fino ad allora). La dinamica dell’apparato del CHP si è combinata con la fine delle misure anticicliche del regime a favore di una politica di austerità classica e, in una certa misura, con la rivelazione dell’ipocrisia del regime sulla questione palestinese, con ambienti affaristici vicini al potere che commerciano con Israele (e persino con il suo esercito).
La situazione sembra quindi essersi chiarita nell’ultimo anno: il CHP è la principale forza politica del paese e con Imamoğlu ha un candidato popolare, in grado di sconfiggere Erdogan. Il che rappresenta un’enorme minaccia per un regime i cui leader traggono notevoli benefici personali dal loro controllo del potere politico.
Un processo di pace?
È in questo contesto che interviene il “processo di pace” che assume una forma inaspettata: è Devlet Bahçeli, il vecchio capo degli ultranazionalisti del MHP e alleato di Erdogan, a proporre un processo che porti al disarmo e allo scioglimento del PKK in cambio di un’amnistia che includa il capo storico, fondatore ed emblematica figura, Abdullah Öcalan, detenuto sull’isola prigione di Imrali da 26 anni.
Ha inizio così un processo di scambi e trattative, che prevede in particolare incontri tra i responsabili governativi e una delegazione di deputati del DEM che fungono da intermediari tra la prigione di Imrali e il monte Qandil nel Kurdistan iracheno, dove si trova la direzione del PKK. Tutto ciò conduce alla “storica” dichiarazione di Abdullah Öcalan del 27 febbraio 2025, che invita a deporre le armi e a sciogliere la PKK.
Tre settimane dopo, il regime di Erdogan ha deciso di oltrepassare una linea che non era mai stata oltrepassata prima: impedire a un avversario di presentarsi alle elezioni presidenziali. Decisione che comporta, innanzitutto, l’annullamento della laurea di Imamoğlu, decenni dopo il suo conseguimento: ricordiamo che secondo la Costituzione turca, un diploma di istruzione superiore è un requisito indispensabile per candidarsi alle elezioni presidenziali.
Questa decisione è stata immediatamente seguita dal suo arresto e da quello di gran parte del suo staff per corruzione e sostegno al terrorismo (le accuse classiche del regime contro i suoi avversari). La data di questa operazione non è casuale: scottato dalla catastrofica sequenza di scelte dei candidati alle presidenziali durante le elezioni del 2023, il CHP ha tenuto domenica 23 marzo le sue primarie per designare il suo candidato per le prossime elezioni con un unico candidato, Ekrem Imamoğlu.
Come si spiega la concomitanza tra il “processo di pace” e questa offensiva autoritaria contro un partito turco di centro-sinistra? È possibile formulare un’ipotesi e un’osservazione sulla realtà di questo “processo di pace”.
L’ipotesi sarebbe che, di fronte al rischio più alto che mai di perdere il potere a favore del CHP, il regime abbia deciso di criminalizzarlo, contando sulle divisioni che si sarebbero verificate al suo interno in questa occasione. Tuttavia, poiché l’operazione è di vasta portata (si tratta del partito politico che governa le più grandi città del paese), potrebbe trattarsi di risolvere separatamente l’altra grande questione – la “questione curda” – contando sul fatto che il movimento nazionale curdo rimarrebbe neutrale di fronte alla criminalizzazione del CHP e darebbe priorità al “processo di pace”. Tuttavia, supponendo che si trattasse effettivamente di una manovra su larga scala avviata dal regime, essa non poteva che scontrarsi con diversi ostacoli importanti, il primo dei quali la situazione stessa del “processo di pace”.
Infatti, la spettacolare dichiarazione di Öcalan è stata ampiamente commentata dalla stampa internazionale, ma omettendo un dettaglio che tale non è: dopo aver letto il testo di Öcalan durante una conferenza stampa, la delegazione dei deputati del DEM ha aggiunto, oralmente, quanto segue: «Abdullah Öcalan ci ha poi detto: “Senza dubbio, il disarmo e l’autodissoluzione del PKK richiederanno in pratica il riconoscimento della politica civile e di una dimensione legale”». Questa “nota a piè di pagina”, considerata parte della dichiarazione di Öcalan dall’intero movimento nazionale curdo, cambia ovviamente le carte in tavola poiché non si tratta più di una autodissoluzione unilaterale, ma di un’opzione condizionata da contropartite, ovvero garanzie democratiche tangibili.
Ma è qui che si manifesta il problema: dall’inizio di questo “processo” non c’è stata alcuna mossa politica positiva nei confronti dei curdi. Nessuna località curda posta sotto tutela ha ritrovato il suo legittimo sindaco, nessun sindaco imprigionato durante gli ultimi due mandati e nessun responsabile politico del DEM (e del suo predecessore HDP) è stato liberato… Quando Ekrem Imamoğlu viene arrestato, è certamente in corso un “processo di pace”, ma senza il minimo progresso concreto da parte del governo turco.
Ciò rende ancora più sbalorditiva la dichiarazione di Devlet Bahçeli del 21 marzo, in cui il leader ultranazionalista propone di tenere un congresso di autodissoluzione del PKK, il 5 maggio, sul territorio dello Stato turco, a Malazgirt, con l’assistenza logistica del sindaco DEM della località! È difficile immaginare che lo Stato Maggiore del PKK arrivi dal monte Qandil tra poco più di un mese senza la minima garanzia di alcun tipo (né politica né di altro tipo) e deporre le armi per andarsene con le mani in tasca… Tanto più che l’altro aspetto di questa dichiarazione di Bahçeli è una violenta accusa contro il CHP (di cui il MHP era alleato 10 anni fa… prima di allearsi con l’AKP) criminalizzando questo partito turco di centro-sinistra con formulazioni che lasciano intravedere ben poche possibilità di un’evoluzione democratica.
Tuttavia, i responsabili curdi (che si tratti di politici civili con il DEM, dell’apparato politico-militare del PKK o del tessuto associativo di questa galassia) non ignorano che questa mancanza di democratizzazione rende più che precario qualsiasi processo di pace. Non possono non ricordare che nel 2015 il precedente processo di pace era stato gettato alle ortiche proprio da Erdogan, che ne ha persino negato l’esistenza in seguito. In fondo, il legittimo sospetto dei leader del DEM è stato riassunto dalla sua copresidente Tülay Hatimogullari: “Chi dice che domani non saremo perseguiti a causa dei nostri incontri con Öcalan nell’ambito della delegazione per il processo di pace?”
Il fallimento di Erdogan
Di conseguenza, dall’inizio di questa crisi, il DEM ha mantenuto una posizione di principio di difesa del processo di pace e dei diritti democratici come un tutt’uno, lontano dalle accuse stereotipate e prive di fondamento emesse dagli ambienti dell’opposizione nazionalista secondo cui si tratta di lasciare le mani libere a Erdogan in cambio della pace. La direzione del DEM ha sostenuto Imamoğlu di fronte all’annullamento del suo diploma e poi durante il suo arresto, e ha anche incontrato quella del CHP al municipio di Istanbul, diventato un punto di raccolta per l’opposizione. La sezione locale di Istanbul del partito ha invitato la gente a scendere in piazza Saraçhane, dove si trova il municipio di Istanbul e dove si svolgono grandi raduni da quando Imamoglu è stato arrestato.
Ancora più simboliche sono state le celebrazioni del Newroz, festa tradizionalmente celebrata dai curdi e appuntamento annuale della movimento nazionale curdo per le riunioni di massa. La celebrazione del Newroz ad Amed/Diyarbakir è considerata un momento politico molto importante. Tuttavia, contrariamente alle aspettative, non c’è stata alcuna nuova dichiarazione di Abdullah Öcalan letta alla tribuna, poiché alla delegazione del DEM è stata impedito di incontrarlo, il che è sicuramente un ostacolo al processo di pace.
Il discorso di Tuncer Bakırhan, co-presidente del DEM, era molto atteso e ha preso di mira il regime dichiarando: “ciò che viene fatto all’opposizione è contrario allo spirito della dichiarazione del 27 febbraio (di Abdullah Öcalan, Ndla) ed è inaccettabile”, dopo aver denunciato esplicitamente l’incarcerazione di Imamoğlu. Tutto ciò è in linea con la posizione del DEM fin dall’inizio, anche se è probabile che il regime sperasse in una dichiarazione più “neutrale”.
Pertanto, la manovra del regime di divisione sembra aver già fallito in gran parte a causa della lucidità dei leader del DEM. Va notato, tuttavia, che anche i leader del CHP hanno cercato di mettersi alla pari con la situazione, non lasciando nel vuoto la mano tesa dai responsabili del DEM. Özgür Özel ha anche inviato una dichiarazione per il Newroz (una prima per un presidente del CHP): «(…) Queste terre sono terre antiche dove diverse culture, lingue e credenze vivono insieme in fratellanza, dove fioriscono solidarietà e speranza. Nessun tiranno, nessun Dehak [tiranno diabolico nella mitologia curda] potrà spezzare la nostra fratellanza!», concludendo il suo testo con la tradizionale formula in curdo «Newroz piroz be!».
In seguito ha salutato un gran numero di prigionieri politici, in particolare gli ex dirigenti dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli, predecessore del DEM). Allo stesso modo, in una dichiarazione scritta durante la detenzione e pubblicata sui social network, Ekrem Imamoğlu ha dichiarato: “finché i curdi dicono che c’è un problema, allora c’è un problema curdo”.
La gioventù mobilitata e il CHP
Allo stesso modo, fin dall’inizio del movimento, il CHP ha cercato di stabilire un legame con la società mobilitata, a differenza di quanto accaduto durante l’ultima massiccia mobilitazione democratica che la Turchia ha conosciuto nel 2013 (“il movimento detto di Gezi”). Oltre a un discorso aperto nei confronti dei curdi, la sua direzione ha formalmente riconosciuto l’importanza degli studenti in questa mobilitazione offrendo loro una tribuna in piazza Saraçhane.
Infatti, la gioventù studentesca costituisce l’avanguardia del movimento e questo è riconosciuto da tutti gli attori, sia che si tratti del CHP o di personalità, artisti, sportivi, celebrità dei media che fanno tutti riferimento all’importanza della gioventù del paese nelle loro dichiarazioni di sostegno indiretto o esplicito al movimento. Ma questo è anche “riconosciuto” dal regime, poiché la repressione si abbatte principalmente su di loro. Ad esempio, nel momento in cui scriviamo queste righe, Selinay Uzuntel, leader studentesca che ha preso la parola in piazza Saraçhane a nome degli studenti in lotta (e inoltre membro dell’EMEP, Partito del Lavoro, marxista-leninista di tendenza hoxhaiste) è stata appena arrestata insieme ad altri animatori studenteschi.
Ci sono 7 milioni di studenti in Turchia, pari all’8,2% della popolazione totale (in Francia, ad esempio, sono il 4,4%). Questi giovani hanno conosciuto solo l’AKP al potere, nella sua versione corrotta e nepotista. Studiano, ma nella maggior parte dei casi non hanno alcuna speranza di trovare sbocchi professionali. Di fronte all’arbitrarietà del potere, la grande maggioranza vorrebbe vivere all’estero se potesse. Constata quotidianamente l’enorme divario tra le virtù promosse dal regime e il cinismo ostentato e arrogante di coloro che ne beneficiano.
Alcuni hanno il ricordo dei fratelli e delle sorelle maggiori che hanno “fatto Gezi”, confrontandosi con autorità arbitrarie e invadenti… 12 anni fa una giovane compagna mi disse durante la protesta di Gezi: “Essere giovani in Turchia significa essere rimproverati, mattina e sera, da Erdogan in televisione”. L’espressione, sorprendente, è certamente ancora più vera oggi, anche se il regime perde ogni giorno la sua legittimità.
Questo ruolo di avanguardia della mobilitazione studentesca va di pari passo con un’aspirazione all’autonomia. Così, per la prima volta a Istanbul, lunedì 24 marzo, c’è stata una manifestazione separata indetta dagli studenti in lotta a Besiktas, e non a Saraçhane. All’inizio della giornata sono stati lanciati “boicottaggi accademici” (l’equivalente degli “scioperi studenteschi”) in molte università.
Per tornare al CHP, questo ha portato a termine le sue primarie, ma aprendole a tutti i cittadini che hanno potuto partecipare alle votazioni “di solidarietà”. Domenica sera, la direzione del CHP ha annunciato la cifra colossale di 15 milioni di persone che si sono recate alle urne (il voto non era elettronico) per una primaria diventata un plebiscito. È impossibile avere una conferma di questa cifra poiché si trattava di un esercizio non ufficiale e nessun media con mezzi sufficienti era autorizzato dal regime a coprire l’evento.
Tuttavia, la copertura della stampa locale indica che la partecipazione è stata forte. Mentre la debolezza del movimento operaio, le difficoltà della condizioni di vita quotidiane, gli ostacoli dal punto di vista organizzativo, tutto questo fa sì che un movimento di sciopero di massa sembra al momento impossibile, anche se il CHP ha invitato al boicottaggio di alcuni gruppi economici e di alcuni media. Dall’inizio del movimento, il regime ha speso l’11% delle sue riserve in valuta estera (20 miliardi di dollari) per prevenire un crollo della lira turca, mentre la borsa di Istanbul si è ripresa dopo un iniziale crollo.
Le riunioni di Saraçhane sono colossali, ma potranno mantenersi a questo ritmo se non ci saranno progressi? Già da ora, a Istanbul si sono formate assemblee di quartiere, se non altro perché Saraçhane è lontana per milioni di abitanti di una metropoli immensa. Oggi è impossibile prevedere le conseguenze del movimento in corso, ma è possibile affrontare alcune contraddizioni al suo interno.
Kemalismo contro kemalismo?
Da questa polifonia che proclama la sua aspirazione all’unità del popolo al di là delle sue divisioni tradizionali e dei suoi rapporti di oppressione, si alza tuttavia una dissonanza che non copre gli altri suoni ma che non può nemmeno essere ignorata: quella del suprematismo turco. Se esistono altri solisti ultranazionalisti che si oppongono a Erdogan (i leader dell’Iyi, il “Partito Buono”, o i neofascisti dello ZP, Partito della Vittoria), il suono più stridente è prodotto dal sindaco CHP di Ankara, Mansur Yavaş.
Ex leader ultranazionalista passato al CHP, ha vinto le elezioni comunali di Ankara nel 2019, contemporaneamente a quelle di Istanbul, dove ha vinto Imamoğlu, e ha poi confermato la sua vittoria schiacciando il suo avversario dell’AKP nel 2024. Durante il suo discorso a Saraçhane, ha denunciato un “due pesi e due misure” contro i manifestanti a Istanbul, mentre “un partito nell’est del paese” organizza raduni (il Newroz) in cui viene sventolato uno “straccio” (bandiere curde e del PKK) e dove si offrono zucchero filato ai giovani (in riferimento a un video ampiamente diffuso di un poliziotto che distribuisce questa caramella ai bambini in una località curda in occasione del Newroz) mentre “qui” (a Istanbul o Ankara ma sottinteso “i turchi”) “si bastonano i giovani”.
Questo discorso volgare equipara un microevento a decenni di oppressione coloniale e inverte i ruoli storici. Insensibile a qualsiasi prospettiva di pace, vuole il mantenimento dello status quo suprematista, cioè una democrazia solo per i turchi, quindi in definitiva nessuna democrazia per nessuno. Questo discorso non è quello della direzione del movimento, tanto più che Yavaş, in quanto transfuga da un’altra parte, non ha mai avuto una forte influenza all’interno del CHP (che ha potuto tenere questo tipo di discorso nei suoi periodi peggiori di destra), ma esiste.
Dietro Yavas c’è l’ambiente nazionalista di opposizione dei piccoli partiti citati in precedenza, ma anche alcuni altri sindaci, come Tanju Özcan a Bolu, o Burcu Köksal ad Afyonkarahisar e quadri del CHP. Non solo rappresentano un rischio di deviazione per il movimento, ma lo indeboliscono. È a causa del discorso di Yavaş che la dichiarazione di Özgür Özel è stata fischiata durante la sua lettura al Newroz di Istanbul. Astutamente, Erdogan non ha mancato di denunciare le parole di Yavaş per presentare il movimento in corso come quello dei nemici della pace e dei sostenitori dello statu quo[3].
Chiunque osservi il movimento di protesta noterà i ritratti di Mustafa Kemal accompagnati da bandiere turche che abbondano durante le manifestazioni e le riunioni. Lo stesso valeva nel 2013 per il movimento di Gezi. Anche tra i giovani; la mobilitazione è giustificata da alcuni studenti e da un gran numero di coloro che li sostengono, mobilitando la figura di Mustafa Kemal Atatürk con molti estratti del suo “Discorso alla gioventù”, o della sua formula del suo “Grande Discorso” affidando la Repubblica alla gioventù o anche con la formula più generica “la sovranità appartiene senza condizioni né restrizioni alla nazione” (in contrapposizione a un singolo individuo, Erdogan).
L’uso della figura tutelare del fondatore della Repubblica di Turchia legittima un discorso di opposizione, lo colloca in una continuità patriottica e allo stesso tempo lo mobilita per qualcos’altro. Ciò che viene ricordato del discorso è ciò che può essere collegato alla sovranità collettiva, da un lato, e, dall’altro, alla missione storica della gioventù turca, convalidando così il discorso portato oggi concretamente da questa gioventù. Così, proprio come durante la rivoluzione di Gezi, ma in modo ancora più esplicito poiché si tratta di opporsi a un’operazione che mette esplicitamente in discussione un processo elettorale (la cui importanza in Turchia è stata precedentemente ricordata), Mustafa Kemal Atatürk viene mobilitato per un’aspirazione democratica[4].
Si tratta, in sostanza, di una forma di discorso performativo rispetto al passato: se Mustafa Kemal affida la Repubblica alla gioventù, è perché questa Repubblica e la gesta della guerra di liberazione portano in sé la nostra aspirazione democratica. Özgür Özel non procede diversamente quando proclama “Queste terre sono terre antiche dove diverse culture, lingue e credenze convivono in fratellanza”, mentre queste terre hanno conosciuto il genocidio armeno, la legge sulla tassa sul patrimonio[5], prima ancora dell’oppressione coloniale dei curdi. Ma, poiché l’obiettivo ora dichiarato è una repubblica inclusiva, è necessario reinventare un passato che corrisponda a questo e una fedeltà al kemalismo che convalidi le aspirazioni politiche del momento.
Di fronte a ciò, Mansur Yavaş mente sulle relazioni sociali odierne presentando i curdi come privilegiati rispetto ai turchi oppressi nel loro stesso paese. Ma è fedele al contenuto pratico del kemalismo reale, prodotto da una guerra di liberazione nazionale, che fu eroica pur rifiutando di riconoscere la pluralità nazionale della Turchia, dimenticando le promesse fatte in tal senso, reprimendo le rivolte curde e ponendo rapidamente fine a ogni forma di pluralismo politico controllato…
Non c’è dubbio, tuttavia, che per le organizzazioni della sinistra radicale coinvolte nella mobilitazione – e alcune di esse svolgono un ruolo catalizzatore tra i giovani, come il TIP (Partito dei Lavoratori della Turchia, che conta 4 deputati, di cui 1 in carcere) – la priorità non è fare un corso di storia, ma portare avanti concretamente il movimento, poiché «ogni passo in avanti del movimento reale vale più di una dozzina di programmi» (come disse Marx), o di una dozzina di corsi di storia…
La funzione della menzogna democratica di massa del movimento è quella di aprire la strada per confrontarsi con la verità storica al fine di approfondire la democrazia e, in una strategia di lotta di classe, togliere le armi di divisione dalle mani della borghesia. Ma siamo ancora lontani da questo. Oggi, ogni passo di uno studente che manifesta per il rispetto della democrazia nella roccaforte conservatrice di Konya è più prezioso di queste considerazioni. Il nostro sostegno non deve mancare.
*articolo apparso su contretemps il 27 marzo 2025
[1] Ha dichiarato, ad esempio, di aver concluso un accordo segreto con l’ultranazionalista Ümit Özdag dello ZP (Partito della Vittoria), il cui candidato era arrivato terzo al primo turno con il 5%, che, andando oltre il loro accordo ufficiale, stava facendo enormi concessioni a questo partito. Un accordo concluso all’insaputa del suo stesso stato maggiore, anche se il Partito della Vittoria è profondamente ostile ai curdi che avevano votato in grande maggioranza per Kemal Kiliçdaroğlu. Quest’ultimo è così riuscito nell’impresa di raccogliere sia la disonore che la sconfitta.
[2] Kemal Kiliçdaroglu aveva fatto qualche timido passo in questa direzione prima di decidere di tradire i curdi tra i due turni. Va ricordato che il CHP ha fatto molta strada in questo campo poiché, sotto la sinistra direzione di Deniz Baykal, tra il 1995 e il 2010, il suo discorso non era molto diverso da quello degli ultranazionalisti dell’MHP.
[3] Ha anche accusato i manifestanti di aver saccheggiato una moschea e di aver bevuto alcolici, riprendendo un grande classico della calunnia diffusa dal regime dal 2013.
[4] In un certo senso, c’è una somiglianza con gli studenti degli anni ’60 che hanno iniziato il loro percorso politico con il kemalismo, insistendo sull’approfondimento dell’indipendenza, poi hanno scavato il solco dell’anti-imperialismo e hanno navigato verso le sponde del marxismo (o meglio di varie obbedienze marxiste).
[5] Disposizione discriminatoria del 1942 contro i non musulmani che stabiliva di fatto una tassa sul patrimonio a tassi esorbitanti per queste categorie al fine di rovinarle e costituire al loro posto una borghesia turca e musulmana.