Dal Giappone all’Australia, dalla Malaysia al Brasile: la corsa per spezzare il monopolio cinese sulle terre rare tra sussidi miliardari e resistenze locali
La dipendenza dalle forniture cinesi di terre rare è diventata negli ultimi anni una delle vulnerabilità strategiche più discusse a livello globale, ma il Giappone, già nel 2010, aveva scoperto sulla propria pelle quanto fosse grave questo problema. Nell’ambito di una disputa riguardante le isole Senkaku, sotto controllo giapponese ma rivendicate dalla Cina, Pechino aveva imposto un embargo di due mesi sulle esportazioni di questi materiali. L’evento scatenante era stato la collisione tra una nave da pesca cinese e due imbarcazioni della guardia costiera giapponese. La maggior parte dei funzionari governativi di Tokyo non aveva fino a quel momento nemmeno un’idea vaga di cosa fossero le terre rare. Tatsuya Terazawa, all’epoca responsabile delle politiche economiche del ministero del commercio e che, per sua stessa ammissione, aveva una “conoscenza pari a zero” di questi elementi, aveva reagito mettendo insieme un pacchetto da più di un miliardo di dollari, una cifra che allora gli era valsa critiche feroci per gli sprechi. Il suo obiettivo era costruire catene di approvvigionamento alternative. Parte di quei fondi sono finiti nelle casse di Lynas, un’azienda mineraria australiana in difficoltà finanziarie che stava tentando di creare la prima filiera integrata di terre rare completamente indipendente dalla Cina. L’investimento ha garantito a Tokyo forniture a lungo termine attraverso un modello che prevedeva l’estrazione del minerale in Australia occidentale e la raffinazione in Malaysia.
Quindici anni dopo, quella struttura continua a funzionare e il Giappone ha ridotto la propria dipendenza dalle importazioni cinesi dal 90% stimato durante la crisi del 2010 a una percentuale compresa tra il 60% e il 70%. Un miglioramento significativo, certo, ma i funzionari giapponesi sottolineano che il percorso è stato lungo, costoso e ancora incompiuto. Quando il presidente americano Donald Trump ha dichiarato di credere che gli Stati Uniti possano assicurarsi forniture sufficienti di terre rare in circa un anno, gli esperti del settore hanno reagito con estremo scetticismo. Le stime più realistiche parlano di un decennio, forse due, per sviluppare una filiera completamente autonoma dalla Cina. Anche progetti già avviati, come l’espansione produttiva della società americana MP Materials o lo sviluppo della miniera brasiliana di Serra Verde, richiedono anni prima di raggiungere la piena capacità operativa.
Il problema non è trovare i minerali, che nonostante il nome non sono particolarmente scarsi nella crosta terrestre, ma separarli e raffinarli. Questi diciassette elementi metallici condividono proprietà chimiche molto simili, il che rende estremamente complesso isolarli l’uno dall’altro su scala industriale. Il processo richiede centinaia di torri di estrazione con solventi chimici e controlli di processo rigorosissimi per ottenere purezza superiore al 99,9%. La Cina controlla il 90% della capacità mondiale di raffinazione, una posizione costruita nell’arco di quattro decenni attraverso investimenti statali massicci e standard ambientali volutamente inesistenti, per fornire al mondo una produzione a basso costo sulla pelle dei lavoratori e degli abitanti, e per dominare il mercato. Quando l’australiana Lynas ha tentato di avviare la produzione nel suo stabilimento malese tra il 2011 e il 2012, ha dovuto affrontare mesi di ritardi a causa della feroce opposizione locale e delle contestazioni legali. La separazione chimica delle terre rare produce grandi volumi di rifiuti acidi e migliaia di tonnellate di residui radioattivi a bassa intensità, con costi elevati e tempi lunghi per lo smaltimento appropriato. In Cina, al contrario, molti impianti di raffinazione operano senza regolamentazioni sufficienti, alcuni addirittura illegalmente, creando siti di scorie tossiche.
Questa differenza si traduce in un divario di competitività che secondo Kosuke Uemura, amministratore delegato di Sojitz, è “assolutamente incolmabile” senza sostegno pubblico. I costi di costruzione di una raffineria in Australia sono stimati essere cinque volte superiori rispetto alla Cina. Per questo motivo Lynas e Sojitz, una società che gestisce la distribuzione ai produttori di magneti, hanno bisogno di garanzie governative, prezzi minimi garantiti e impegni di acquisto a lungo termine. Senza questi strumenti, competere normalmente con la Cina significherebbe “giocare su un campo completamente diverso”. Il caso giapponese offre quindi una lezione cruciale che va oltre l’ottimismo delle dichiarazioni politiche. Come ha sintetizzato efficacemente un consulente del settore, non si è nemmeno arrivati alla fine dell’inizio. Siamo appena all’inizio dell’inizio.
Una geografia frammentata tra alleanze e ambiguità
L’esperienza giapponese ha messo in evidenza un altro aspetto cruciale della competizione globale riguardo alle terre rare. La diversificazione non può avvenire in modo isolato. Servono partner minerari affidabili, hub di lavorazione strategicamente posizionati e paesi disposti a ospitare impianti ad alto impatto ambientale. Negli ultimi mesi del 2025, gli Stati Uniti hanno intensificato gli sforzi per tessere una rete di accordi bilaterali che alcuni commentatori hanno definito una “NATO delle terre rare”. L’architettura che sta emergendo è però tutt’altro che compatta. Accanto a partner privilegiati che hanno rapidamente allineato i propri interessi a quelli di Washington, esistono paesi che stanno cercando di sfruttare la competizione sino-americana per massimizzare i propri vantaggi, negoziando contemporaneamente con entrambe le parti.
L’Australia rappresenta il pilastro principale di questa nuova architettura. L’accordo firmato a ottobre tra il presidente Trump e il primo ministro Anthony Albanese prevede investimenti bilaterali per 8,5 miliardi di dollari per finanziare progetti di estrazione, lavorazione e raffinazione sul suolo australiano. Le azioni delle società minerarie australiane specializzate in terre rare hanno registrato aumenti vertiginosi nel corso del 2025, con Lynas, Arafura e Northern Minerals che hanno visto i propri titoli triplicare di valore. Il problema rimane però quello già evidenziato dal caso giapponese: gli alti costi energetici e della manodopera rendono necessari sussidi pubblici continui per mantenere la competitività rispetto alla Cina.
Il Giappone, forte della propria esperienza decennale nella gestione delle catene di approvvigionamento di terre rare, ha firmato con Trump un accordo quadro di cooperazione che prevede lo sviluppo congiunto di giacimenti nei fondali marini vicino all’isola di Minamitorishima, a circa duemila chilometri a sudest di Tokyo. I test dimostrativi per recuperare fanghi ricchi di terre rare da una profondità di seimila metri inizieranno a gennaio 2026. Il Brasile costituisce da parte sua la nuova frontiera mineraria di questa rete. A Serra Verde, nello stato di Goias, si trova l’unica miniera di argille ioniche fuori dall’Asia capace di estrarre terre rare pesanti come il disprosio, fondamentali per applicazioni militari. La Development Finance Corporation degli Stati Uniti ha approvato ad agosto un prestito di 465 milioni di dollari per aiutare Serra Verde ad aumentare in misura sensibile la propria produzione entro il 2027. Resta però un problema cruciale: attualmente solo la Cina possiede la capacità di processare su larga scala le terre rare pesanti estratte da questa miniera brasiliana.
La Malaysia occupa una posizione particolare in questa geografia frammentata. L’impianto di Lynas a Kuantan, operativo dal 2012, è diventato a maggio 2025 il primo stabilimento commerciale al mondo capace di separare terre rare pesanti come disprosio e terbio al di fuori del territorio cinese. L’azienda ha annunciato a ottobre un’espansione da 117 milioni di dollari che prevede partnership con la sudcoreana JS Link e l’americana Noveon Magnetics, entrambe fornitrici dichiarate di sistemi di difesa statunitensi. Più del 90% dei dipendenti dell’impianto sono malesi e una quota crescente della catena di fornitura viene acquisita localmente, il che ha reso la Malaysia un’opzione privilegiata per un hub di raffinazione non controllato da interessi cinesi. A ottobre gli Stati Uniti hanno firmato un memorandum d’intesa con Kuala Lumpur che garantisce alle società americane accesso prioritario agli investimenti minerari e impegna la Malaysia a non imporre restrizioni sulle esportazioni verso gli Stati Uniti di prodotti contenenti terre rare. Il governo malese ha però mantenuto aperte le trattative parallele con Pechino per la costruzione di una raffineria che coinvolgerebbe un fondo sovrano e un’impresa statale cinesi. Il paese possiede riserve stimate in 16,1 milioni di tonnellate, valutate circa 189 miliardi di dollari, e dal 2024 ha imposto una moratoria sulle esportazioni di minerali grezzi per incentivare gli investimenti nella lavorazione locale.
Questa posizione ambigua della Malaysia non è di natura esclusivamente diplomatica. La pressione cinese si manifesta in modi concreti che minacciano la sostenibilità dell’impianto Lynas. Fornitori cinesi hanno smesso di fornire parti di ricambio per i macchinari di fabbricazione cinese presenti nello stabilimento, costringendo l’azienda a sviluppare alternative più costose. Il caso della joint venture sino-malese MCRE Resources illustra ancora meglio i limiti della sovranità malese nel settore. Questa società, che utilizza tecnologie cinesi di lisciviazione in situ, è l’unica ad avere ottenuto un’esenzione dalla moratoria sulle esportazioni di minerali grezzi. Il 100% della sua produzione viene venduto a una sussidiaria del gruppo statale cinese China Rare Earth Group e praticamente tutti i macchinari e gli input chimici provengono dalla Cina. Funzionari malesi riferiscono che quando inizialmente si era chiesto a MCRE di inviare il proprio minerale all’impianto Lynas per mantenerlo all’interno della filiera locale, l’azienda ha ricevuto “una chiamata dalla Cina” che ha chiuso immediatamente la discussione.
Altri paesi stanno cercando di posizionarsi come alternative, con risultati incerti. Il Kazakistan ha dichiarato di avere aperto una nuova linea di produzione mineraria per oltre venti milioni di tonnellate di terre rare, una quantità che lo renderebbe il terzo produttore mondiale dopo Cina e Brasile. L’annuncio non è stato però confermato da soggetti internazionali e permangono dubbi sulla reale efficacia dell’iniziativa. I problemi di trasporto e la carenza di infrastrutture adeguate rendono gli investimenti nel paese centroasiatico particolarmente rischiosi nel breve periodo. La Turchia ha cambiato strategia dopo che le trattative con Cina e Russia per lo sviluppo del giacimento di Beylikova si sono arenate. Pechino insisteva per trasportare e raffinare i materiali in Cina rifiutando qualsiasi trasferimento tecnologico, mentre i colloqui con Mosca non hanno prodotto risultati. Dopo l’incontro tra Trump e il presidente turco Erdogan, Ankara ha avviato discussioni con Washington per una possibile partnership che preveda la raffinazione congiunta. L’India, dal canto suo, sta preparando un piano per arrivare quasi a triplicare gli incentivi alla produzione di magneti a base di terre rare. A novembre 2025 alcune società indiane hanno ottenuto approvazioni dalla Cina per forniture di magneti, ma il paese continua ad affrontare sfide strutturali legate a tecnologie limitate, costi elevati dei progetti e preoccupazioni ambientali. La geografia della diversificazione appare quindi fluida e competitiva, con molti attori che cercano di sfruttare le tensioni tra Washington e Pechino piuttosto che schierarsi nettamente.
L’interventismo industriale di Washington
La costruzione di questa rete internazionale di partner e hub produttivi coincide con una trasformazione del ruolo dello stato americano nell’economia. Scott Bessent, segretario al Tesoro dell’amministrazione Trump, ha riassunto efficacemente il cambio di paradigma quando ha affermato che di fronte a un’economia non di mercato come quella cinese diventa necessario adottare forme di interventismo statale diretto, con il governo che acquisisce partecipazioni azionarie in aziende private e garantisce prezzi minimi. L’affermazione suona paradossale venendo da chi appena un anno prima, in un intervento al Manhattan Institute, criticava i sussidi dell’amministrazione Biden ai semiconduttori come forme di “pianificazione centrale”. La contraddizione è evidente ma riflette una consapevolezza ormai diffusa negli ambienti governativi di Washington. L’amministrazione Trump ha identificato sette industrie di importanza strategica in cui intende esercitare un maggiore controllo governativo e le terre rare figurano in cima alla lista. L’approccio segna una rottura netta con decenni di insistenza sul libero mercato e sulla competizione senza interventi statali.
Le partecipazioni azionarie del governo federale nelle società private rappresentano forse l’aspetto più eclatante di questa svolta. A luglio l’amministrazione ha acquisito una quota del 15% in MP Materials, la principale società mineraria americana di terre rare, accompagnando l’investimento con la garanzia di un prezzo minimo di acquisto pari a 110 dollari al chilogrammo per l’ossido di neodimio-praseodimio. Il modello è stato poi replicato in altri contesti. Il segretario al Commercio ha convertito fondi del CHIPS Act in partecipazioni azionarie anche nel settore dei semiconduttori, mentre il Pentagono ha ottenuto opzioni per acquisire quote azionarie in società attive nella produzione di magneti. Oltre alle partecipazioni dirette, il governo ha mobilitato le proprie agenzie di credito per finanziare progetti in Australia e Brasile, mentre il One Big Beautiful Bill Act approvato a luglio stanzia 7,5 miliardi complessivi per i minerali critici.
L’accumulo di riserve strategiche attraverso la Defense Logistics Agency costituisce un altro pilastro dell’interventismo governativo. L’agenzia ha richiesto l’autorizzazione per acquisti che potrebbero arrivare fino a un miliardo di dollari, coprendo minerali critici come cobalto, antimonio, tantalio e scandio. Le quantità richieste hanno sorpreso gli operatori del settore perché in molti casi superano la produzione e le importazioni annuali complessive degli Stati Uniti. Anche il settore finanziario privato si è allineato a queste priorità strategiche. JPMorgan ha annunciato un impegno di 10 miliardi di dollari per società legate alla sicurezza nazionale, incluse quelle attive nelle terre rare, nell’ambito di un programma complessivo da 1,5 trilioni destinato a industrie strategiche. La banca ha inoltre espresso interesse per la creazione di una riserva strategica di minerali che richiederebbe coordinamento tra settore pubblico e privato su scala senza precedenti.
Questo interventismo massiccio affronta però contraddizioni interne e limiti strutturali che ne mettono in dubbio la sostenibilità a lungo termine. La più evidente riguarda il settore dei veicoli elettrici. Gli analisti sottolineano che il mercato della difesa rappresenta una frazione minuscola rispetto a quello delle batterie e dei veicoli elettrici quando si tratta di domanda di terre rare. Senza un’industria civile vigorosa che generi domanda per questi materiali, gli investimenti nelle catene di approvvigionamento rischiano di rivelarsi insostenibili. L’amministrazione Trump ha però adottato politiche apertamente ostili all’industria dei veicoli elettrici, sabotando di fatto la costruzione di quel mercato interno che sarebbe necessario per giustificare gli investimenti nella filiera delle terre rare. Anche in presenza di finanziamenti abbondanti, il gap tecnologico e la carenza di personale qualificato rispetto alla Cina rappresentano ostacoli che non possono essere superati semplicemente aumentando i fondi disponibili. L’interrogativo che rimane aperto è se questo interventismo senza precedenti possa sopravvivere ai cambi di amministrazione e alle inevitabili pressioni per ridurre la spesa pubblica, oppure se collasserà alla prima crisi di mercato provocata da una sovrapproduzione cinese deliberatamente orientata a rendere non competitivi gli impianti occidentali.
I costi nascosti della diversificazione
Oltre ai problemi di sostenibilità economica e alle contraddizioni interne delle politiche americane, la costruzione di catene di approvvigionamento alternative alla Cina si scontra con resistenze che nessuna quantità di finanziamenti può superare da sola. La società britannica Pensana ha cancellato i piani per un impianto di lavorazione nel Regno Unito dopo aver scoperto che l’Export-Import Bank americana offriva 160 milioni di dollari per la miniera in Angola, venticinque volte la sovvenzione britannica. L’azienda si è semplicemente trasferita oltreatlantico. Il caso illustra come la competizione sui sussidi tra alleati finisca per svuotare le capacità produttive degli uni a vantaggio degli altri, senza aumentare la resilienza complessiva. Ma questa dinamica impallidisce di fronte a ostacoli ancora più concreti: comunità locali che temono contaminazione ambientale e governi che percepiscono gli accordi minerari come cessioni di sovranità. Questi ostacoli politici e sociali hanno già bloccato o rallentato progetti ben capitalizzati e potrebbero rivelarsi altrettanto decisivi del gap con Pechino.
Il Myanmar offre un esempio estremo di cosa può accadere quando l’estrazione di terre rare avviene senza controlli ambientali adeguati. Negli stati di Shan e Kachin, miniere illegali hanno trasformato alcuni fiumi in corsi d’acqua color arancione a causa dei solventi chimici utilizzati, facendo salire alle stelle i livelli di arsenico e compromettendo gli ecosistemi transfrontalieri. L’esperienza di questo paese viene citata dalle organizzazioni ambientaliste malesi come monito di ciò che potrebbe accadere nel loro paese se le regolamentazioni venissero allentate sotto pressione economica. Le miniere malesi si trovano in aree ad alta biodiversità e gli ambientalisti temono che i governi statali possano revocare lo status di protezione ad alcune zone per attirare investimenti. Una joint venture sino-malese utilizza il metodo cinese della lisciviazione in situ, che prevede il lavaggio diretto del suolo con liquidi chimici, una tecnica evitata da molte società occidentali proprio per i rischi ambientali. La legislazione ambientale malese viene considerata obsoleta, con sanzioni troppo leggere e meccanismi di applicazione deboli per gestire un’industria ad alto rischio. Anche in Turchia, dove il giacimento di Beylikova potrebbe essere sviluppato con tecnologie di lisciviazione in situ, le preoccupazioni sull’impatto ambientale costituiscono un freno significativo agli investimenti.
Gli Stati Uniti affrontano quindi una sfida tripla che combina regolamentazione ambientale stringente, mancanza di economie di scala e assenza di canali consolidati per il riciclo dei materiali. Alcuni paesi stanno esplorando lo sviluppo di magneti ad alte prestazioni a base di manganese che non contengono terre rare, oppure motori a riluttanza sincrona che potrebbero ridurre la dipendenza da questi materiali. Il riciclo di magneti, tubi fluorescenti, luci LED e catalizzatori dell’industria petrolifera rappresenta un’altra possibile fonte di approvvigionamento, ma i materiali recuperati spesso non raggiungono livelli di purezza sufficienti e i costi di lavorazione rimangono elevati.
Le questioni di sovranità rappresentano un ostacolo altrettanto significativo, particolarmente evidente nel continente africano dove la competizione per le risorse minerarie ha una lunga storia di sfruttamento coloniale e neocoloniale. La Repubblica Democratica del Congo costituisce il caso più emblematico della cosiddetta “maledizione delle risorse”. Nonostante sia tra i paesi più ricchi di minerali al mondo, rimane uno stato fallito disperatamente povero, devastato da decenni di conflitti alimentati proprio dal controllo dei giacimenti. Solo il 5% dei minerali critici africani viene attualmente processato sul continente, il che significa che il valore aggiunto viene catturato altrove. La Cina ha investito 24 miliardi di dollari in aiuti e crediti per progetti minerari in Africa tra il 2000 e il 2021, diventando il principale finanziatore del settore. I diplomatici di Pechino negoziano spesso direttamente con i governi ospitanti per conto delle imprese statali, massimizzando la leva politica e facilitando l’accesso della Cina alle zone minerarie africane. Gli osservatori africani chiedono la creazione di strutture di regolamentazione trasparenti che trasformino le risorse minerarie in contratti sociali nazionali, senza tuttavia trovare eco nei governi locali, in Cina o negli Usa. Alcuni propongono la formazione di un cartello dei minerali critici sul modello dell’OPEC per rafforzare il potere negoziale dei paesi produttori, ma l’iniziativa fatica a decollare di fronte alla competizione tra gli stessi stati africani per accaparrarsi capitali stranieri.
La Malaysia, come già evidenziato, naviga in acque ambigue tra cooperazione con Washington e mantenimento dei legami con Pechino. Il ministro malese Chang Lih Kang ha dichiarato che la Cina deve scegliere se collaborare sulla lavorazione locale oppure spingere la Malaysia verso l’altro fronte, ma il legislatore Howard Lee ha espresso dubbi sulla capacità del paese di rifiutare ciò che Pechino è disposta a offrire. La Cina può proporre accordi di cooperazione tecnologica con trasferimenti minimi di know-how, inviando ingegneri cinesi per supervisionare le operazioni negli impianti malesi in modo simile a quanto fatto nelle miniere di rame africane. Funzionari malesi sottolineano che attualmente Lynas ha sviluppato la capacità di processare commercialmente solo due terre rare pesanti, disprosio e terbio, mentre elementi come gadolinio, itterbio e lutezio possono essere lavorati solo in Cina. Questa realtà limita drasticamente i margini di manovra della Malaysia nelle trattative.
Conclusioni
La competizione globale sulle terre rare rivela dinamiche di potere che vanno oltre la semplice narrazione della sfida tra Cina e Occidente. Pechino ha costruito il proprio dominio nell’arco di quattro decenni attraverso investimenti statali massicci e costi ambientali che sono stati scaricati sulle popolazioni locali e sugli ecosistemi. Questa posizione viene ora utilizzata come strumento di pressione nelle dispute commerciali, ma la stessa Cina scopre che l’uso ripetuto di restrizioni alle esportazioni finisce per accelerare gli sforzi di diversificazione che vorrebbe impedire. Gli Stati Uniti rispondono con un interventismo industriale senza precedenti che contraddice decenni di retorica sul libero mercato, ma lo fanno sabotando contemporaneamente l’industria dei veicoli elettrici che dovrebbe generare la domanda necessaria a sostenere gli investimenti nella filiera. L’Europa osserva con preoccupazione mentre le proprie aziende migrano verso gli Stati Uniti attratte da sussidi più generosi, scoprendo di non avere né i capitali né la volontà politica per competere. Il Giappone, unico attore con esperienza decennale nella diversificazione, continua a dipendere dalla Cina per il 60-70% delle forniture dopo quindici anni di sforzi costosi.
I paesi che possiedono giacimenti minerari significativi si trovano in una posizione ambigua. Possono sfruttare la competizione tra Washington e Pechino per ottenere investimenti e trasferimenti tecnologici, ma rischiano di perdere controllo sulle proprie risorse senza sviluppare reali capacità autonome. La costruzione di catene di approvvigionamento alternative alla Cina è tecnicamente possibile, come dimostra il caso giapponese, ma richiede impegni generazionali che poche amministrazioni democratiche sono disposte o capaci di mantenere. Nel frattempo, i costi ambientali vengono semplicemente spostati da un territorio all’altro piuttosto che affrontati, e la competizione tra potenze produce frammentazione anziché una risoluzione del problema. Resta da vedere quanto a lungo questa architettura frammentata possa reggere evitando che una crisi di mercato o un cambio di priorità politiche la faccia collassare.
*articolo apparso su https://andreaferrario1.substack.com/ il 17 dicembre 2025.
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