Considerazioni politiche sulla vicenda Arlind

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arlind2Alla fine, almeno per il momento, Arlind, il giovane kossovaro minacciato di espulsione, potrà rimanere in Svizzera e, verosimilmente, riuscirà a ricevere un permesso di soggiorno.
Una vicenda che ha interessato, per alcuni giorni, l’opinione pubblica cantonale e sulla quale val la pena tornare perché attraverso di essa possiamo leggere alcuni aspetti rilevanti della nostra realtà politica e sociale.

La prima riflessione è legata alla logica mortalmente assurda della politica dell’immigrazione condotta in Svizzera in questi ultimi anni e non ancora giunta, nella sua deriva a destra, ad un punto fermo. La prossima iniziativa UDC in votazione nel 2014 rischia di imprimere (al di là dell’esito del voto) una nuova svolta restrittiva alla politica migratoria ed ai diritti degli immigrati.
Di fronte ad evidenti argomenti di buon senso si è contrapposta la logica della politica migratoria svizzera, tesa a selezionare gli immigrati sulla base di bisogni di manodopera, nel quadro di una politica assimilazionista e xenofoba che considera alcune provenienze meno «nobili», assimilabili ed integrabili di altre.

La seconda riflessione, che riguarda una prospettiva politica di sinistra, concerne il rapporto tra forme della politica e mobilitazione sociale.
Abbiamo a più riprese attirato l’attenzione sul fatto che una ripresa concreta di una politica di sinistra in questa paese, una modificazione di qualsiasi portata nei rapporti forza politici e sociali, dovrà e potrà passare solo attraverso la costruzione di una capacità di mobilitazione sul terreno sociale.
Al di fuori di questo, la presenza istituzionale (nelle sue varianti elvetiche della democrazia semi-diretta), la presenza e la denuncia mediatica, gli annunci pubblici, tutto questo conto poco o nulla. Anzi, il più delle volte ha un effetto negativo poiché orienta le poche forze a disposizione verso priorità di questo tipo, facili da raggiungere, ma, ahimé, poco efficaci rispetto agli obiettivi che si vogliono perseguire. Abbiamo mostrato, ad esempio, come il declino della presenza sindacale, della capacità di azione sul terreno, sia stato sostituito con una dimensione quasi solo mediatica della sua azione.
La vicenda Arlind, il successo di coloro che hanno organizzato la campagna a sostegno del diritto di restare, ha mostrato come una mobilitazione sul terreno possa avere la meglio sui ripetuti tentativi di far valere le ragioni del buon senso e umanitarie di fronte ad una legge (ed autorità di applicazione amministrative e giudiziarie) costruita espressamente, tra le altre cose, proprio sulla negazione di simili criteri.
La mobilitazione nelle sue molteplici sfaccettature (raccolta di firme per la petizione nelle scuole, manifestazione di piazza, ecc.) ha permesso di creare un rapporto di forza che nessun altra via era riuscita a creare.
Un esempio ed un insegnamento che possiamo estendere a tutte le rivendicazioni oggi sul tappeto: da quelle economiche a quelle culturali e sociali. Solo con una ripresa dell’azione sul terreno sociale sarà possibile fare qualche passo avanti. Una constatazione che deve avere anche ripercussioni, se accettata sullo statuto stesso di una politica di sinistra, sulle sue priorità, sui suoi obiettivi, sulle forme stesse che tale impegno deve assumere.
Infine, ma non si tratta certo di osservazione secondaria, questa mobilitazione ha potuto avere successo poiché la rivendicazione del diritto a restare di un giovane immigrato si è incontrata con la disponibilità di un numero importante di giovani (da quelli che hanno firmato la petizione a quelli che hanno partecipato direttamente alla mobilitazione) disposti a mobilitarsi a favore di questa rivendicazione.
Si tratta di un capitale prezioso che non va disperso, in particolare in vista della difficile campagna contro l’iniziativa xenofoba dell’UDC in votazione il prossimo anno.

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