Dov’è finita l’ossessione per la Brexit?

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aaaaaaaaaaaabrexit-cartoonjpg-722fa2ebc756752bBrexit è stata evocata come un cataclisma per l’economia britannica nel migliore dei casi o come il rischio di un ritorno di fiamma della crisi finanziaria globale nel peggiore. Si temeva inoltre l’effetto domino sul piano politico. A distanza di alcuni mesi nulla di tutto ciò si è ancora verificato, anzi viene sottolineato come Brexit sia stata contenuta dalle politiche monetarie ultra-espansive della Banca centrale del Regno Unito e dalla prosecuzione del Qe della Bce.

Addirittura tra i leave si afferma, in maniera piuttosto disinvolta,che il ricco medagliere alle olimpiadi di Rio (secondo paese dopo gli Usa) sia la dimostrazione del fatto che possono fare da sè e non solo sul piano sportivo. Ma cosa insegna la vicenda Brexit?

Innanzitutto evidenzia il fallimento delle classi dirigenti contemporanee, non solo perché manca un progetto di unità europea degno di questo nome, ma anche perché la globalizzazione nei suoi meccanismi di fondo ne esce con le ossa rotte. Come sottolinea il famoso imprenditore italiano Carlo De Benedetti, abbiamo «assistito a un momento concreto di confronto tra chi ha guadagnato e chi ha perso dal fenomeno della globalizzazione» e, si potrebbe aggiungere, quelli che hanno perso risultano essere la maggioranza. Come ammette sempre De Benedetti è stato «un voto di sfiducia nei confronti di un modello di sviluppo economico che ha evidentemente lasciato indietro troppa gente». Questo è il punto. Altro che incapacità di valutare le conseguenze, ignoranza su cosa sia l’Unione Europea (come suggerito da Google dopo il risultato), per non dire di chi ha parlato di «abuso della democrazia» (ne parla lo stesso De Benedetti). Il voto è stato principalmente un voto politico sulla direzione di marcia dell’economia. Piaccia o meno. Per certi versi anche un voto dettato dalle condizioni di classe. Un operaio edile intervistato dalla Tv in una strada della City di Londra affermava come lui e tutti i suoi colleghi avessero votato leave e che era consapevole di dichiararlo in un quartiere a netta maggioranza favorevole al remain, ma concludeva indicando il palazzo dietro le spalle che «loro stanno in alto e noi in basso». Mi pare che queste battute dianoun utile spaccato del voto britannico. La Gran Bretagna è il cuore pulsante della finanza continentale, ma allo stesso tempo è un paese vittima della globalizzazione, un paese in cui sono state somministrate grandi dosi di deregolamentazione, privatizzazioni, precarietà del lavoro, disoccupazione per continuare a competere. Per anni il mondo ha continuato ad aprirsi e ora sembra aver superato il limite. Gli squilibri generati da queste aperture hanno creato le condizioni per i ripiegamenti nazionali o locali. E qui vengono i dolori per una politica contro il mercato, una politica che cerca alleanze tra le fasce subalterne. Il voto britannico, infatti, da un lato ha messo un sassolino negli ingranaggi, ma al contempo rischia di far deragliare il treno dal lato sbagliato, quello dei nazionalismi e dei razzismi. La competizione resta il meccanismo di fondo del funzionamento della macchina economica. Tutti contro tutti. La svalutazione della sterlina non implica una catastrofe, forse favorirà le esportazioni per qualche produzione britannica, ma non aiuterà a migliorare le condizioni di lavoro e di vita degli esclusi dalla globalizzazione. Semplicemente aumenterà il grado di competizione sistemica. Qualche merce inglese costerà di meno, qualche altro paese proverà a scippare una parte del ruolo nevralgico di Londra nel sistema finanziario (il sindaco di Milano si è già fatto avanti, senza avere neppure il senso del ridicolo, oltre che delle proporzioni), ma il senso di marcia dei grandi processi resterà immutato. Impoverimento delle classi medio-basse, crescenti sperequazioni socio-economiche, deregolamentazione del lavoro e privatizzazione del welfare. Tutto ciò non verrà ostacolato da Brexit. Se un limite di quel voto esiste è perché non è in grado di invertire davvero la rotta, ma solo di consentire a un paese piuttosto importante di continuare a condurre guerre di mercato in sedicesimi. Nessun recupero di sovranità nazionale, tantomeno popolare, verrà dal proseguire a giocare la solita partita, nello stesso campo di gioco, con le medesime regole.

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