Se fossimo un club di ciclisti diremmo che “abbiamo il naso nel manubrio”. Dovremmo allungare lo sguardo, invece, comprendere i nessi, produrre un’agenda autonoma da quella delle classi dominanti. In Italia il confinamento sociale è stato un duro colpo per la possibilità di mobilitarci. L’ordine del giorno è stato cannibalizzato dal Covid. Infatti, com’è possibile ascoltare una voce critica, dispiegarla, farla vivere nelle lotte, costruire alleanze quando su tutto prevale l’angoscia? D’altra parte, la rabbia sociale cresce e rischia di trasformarsi in alleanze perverse (ad esempio tra strati popolari e piccola imprenditoria predatoria) e proposte politiche reazionarie come dimostra la vitalità di frange di estrema destra in settori circoscritti, per ora, di quartieri popolari. Tuttavia – ed è un primo elemento di riflessione – l’evento “liquido” della rivolta è la forma politica emergente del mondo contemporaneo in forma di disobbedienze, occupazioni, proteste, nuove pratiche politiche di comunità sebbene non prive di limiti e ambiguità.
La crisi blocca l’immaginazione politica
Il coprifuoco, le restrizioni per gli incontri pubblici e privati, l’emergenza sanitaria, sono tutti fattori che piombano su una classe lacerata e stremata dai processi del liberismo e aumentano il senso di sconfitta e solitudine delle persone. Piombano su metropoli in cui lo spazio pubblico è sempre più alienato dalle varie normative anti-terroristiche o dalle politiche di decoro ed è sempre più privatizzato dallo sfruttamento commerciale di vie e piazze. L’isolamento ci sta trascinando verso un individualismo ancora più spinto.
La crisi blocca l’orizzonte e l’immaginazione politica perché la politica è incontrare persone, per questo l’antipolitica, l’ondata pentastellata, ha puntato tutte le sue carte sulla dimensione digitale, sulla solitudine dei molti di fronte a uno schermo di proprietà di pochi, anzi di uno solo.
Tutto ciò è un apparente paradosso nel momento in cui ogni indicatore svela una crisi senza precedenti del sistema produttivista capitalista. Ma proprio per questa ragione una delle facce di questa fase è la generalizzazione di politiche autoritarie da parte sia dei governi conservatori, sia di quelli progressisti. Non è vero che le violazioni dei diritti umani siano oggi una specialità di Ungheria e Polonia, o di al-Sisi, Bolsonaro, Putin o di chi governa in Asia. La gestione della pandemia a livello globale ha avuto effetti disastrosi anche sull’esigibilità dei diritti umani.
Se molti paesi hanno rilasciato un certo numero di detenuti per limitare il contagio, molti hanno escluso dalle misure i dissidenti politici e gli attivisti dei diritti umani. Contemporaneamente, il Covid-19 è divenuto ulteriore pretesto per il condizionamento dell’informazione e per la repressione di giornalisti, attivisti e avvocati in numerosi paesi, tra cui Cina, El Salvador, Iraq, Turchia, Serbia, Egitto, Iran, Bielorussia e Vietnam.
Abbiamo scritto spesso della ferocia della polizia francese contro le mobilitazioni sociali, dell’incremento di leggi eccezionali in Spagna, Francia, negli Stati Uniti. In Italia la breve stagione di Salvini al Viminale ha scolpito due decreti sicurezza che sviluppavano un desiderio bipartisan di tagliare le gambe alla possibilità stessa di manifestare, scioperare, esigere il diritto all’abitare. I decreti Salvini sono lo strumento per gestire la povertà, il dissenso e il conflitto sociale. Ecco perché l’attuale maggioranza, mentre celebra una minima correzione di rotta delle politiche sull’immigrazione, nemmeno ha fatto finta di discutere dell’abrogazione di quella parte dei decreti sicurezza.
Insomma, la police brutality (Macron vuole vietare per legge la diffusione di immagini che documentano gli abusi di polizia) e la repressione dei movimenti sono parte integrante, necessaria, della governance liberista, sia che governino i buoni, i “liberal”, sia che governino i cattivi, da Trump a Orban. È quello che, in parallelo con le controriforme liberiste, viene definita “la fine della tendenza alla pacificazione”, ovvero l’escalation degli attacchi alle forme di dissenso, dal 99 in poi. Tutto ciò per dire che la battaglia per l’agibilità del conflitto non può essere slegata da qualsiasi altra piattaforma politica o sindacale antiliberista. E questo vale anche per le rivendicazioni legate alla sicurezza nei luoghi di lavoro e alla prevenzione del contagio perché la nostra idea di sociabilità prefigura il nostro programma di alternativa.
Repressione e violazione globale dei diritti umani
Se il caso francese è il più evidente in questo scorcio in cui prepariamo l’Almanacco Anticapitalista è perché la Loi de Sécurite globale interviene per occultare la violenza poliziesca contro cicli di lotta lunghissimi che qui ci sogniamo. La sicurezza globale è l’idea che non esiste più una chiara divisione tra sicurezza interna ed esterna. È anche un business enorme e come tale soggetto anche a dinamiche di privatizzazione ed esternalizzazione – è un modo per liberarsi di certi vincoli dello stato di diritto e andare verso un “diritto penale del nemico” che si applicherebbe sia all’interno che all’esterno dei singoli stati. Questa nozione di continuum di sicurezza è uno schermo per trasferire sempre più attività alla sicurezza privata e alla polizia municipale sempre più militarizzata e repressiva.
In Italia, a lotte isolate corrisponde una repressione puntuale, selettiva, durissima e mistificata nel dibattito pubblico, come raccontano le storie della Val di Susa, degli sgomberi nelle varie città, dei pestaggi ai picchetti di lavoratori della logistica o ai detenuti. Non si può tacere, nel bilancio dell’anno, la strage di detenuti in seguito alle rivolte in decine di carceri italiane all’inizio del lockdown del marzo 2020.
Così come le controriforme liberiste anche l’involuzione autoritaria, alle nostre latitudini, si manifesta con le modalità della “rana bollita”. Ma anche qui l’idea di un continuum di sicurezza trova da anni terreno fertile nella combinazione dei discorsi emergenziali con quelli su degrado e decoro. L’idea che la priorità debba essere data alla lotta contro le forme embrionali di devianza è al centro della cosiddetta teoria delle “finestre rotte”, che servì come base per l’escalation “law and order” della polizia di New York. Nel corso degli anni, questo continuum di delinquenza si è esteso dalla microcriminalità al terrorismo comprendendo gli stili di vita e le devianze politiche.Nel 2017, uno storico americano, Timothy Snyder, ha pubblicato From Tyranny, una guida alla resistenza contro Donald Trump e i suoi simili in altre parti del mondo. Una delle sue “Venti lezioni del ventesimo secolo” si intitola: “Rimanete calmi quando succede l’impensabile“: “La tirannia moderna è la gestione del terrore. In caso di attacco terroristico, ricordate che i regimi autoritari sfruttano l’evento per consolidare il loro potere“. Oggi possiamo dire lo stesso a proposito della gestione della pandemia. Si tratta di intrecciare le rivendicazioni del diritto alla salute con quelle per la libertà di movimento di tutte e tutti.
Il capitalismo dei disastri e della sorveglianza
Ha scritto Marco Bascetta sul manifesto: “Il modello che sta prendendo piede in buona parte d’Europa è quello fondato su una contrapposizione tra le attività produttive disciplinate (da mantenere attive ad ogni costo e con qualunque rischio) e le inclinazioni relazionali autonome, l’esercizio di libertà individuali (spesso più prudenti e responsabili dei criteri adottati dai capitani d’industria nelle loro fabbriche) da reprimere e sanzionare”. Non si tratta di abboccare alla retorica della dittatura sanitaria o a qualche forma di negazionismo, vuol dire non smettere di ragionare sui meccanismi che frantumano la classe e isolano le persone in carne e sangue mentre le costringono a lavorare, consumare e a non organizzarsi. Proprio come, dopo l’11 settembre, lottammo per impedire che la lotta al terrorismo fosse l’alibi per ricacciare indietro la possibilità di esprimere pienamente il nostro dissenso contro la guerra e le sue cause scatenanti. Molto spesso il terrorismo ha brutalmente rafforzato una delle dimensioni fondamentali della cultura della polizia, che la polizia è l’ultimo baluardo del regime politico, legittimata dalla società a fare il lavoro sporco. La paura di partecipare a una manifestazione rischia di diventare un “dispositivo preventivo” di formidabile efficacia se lasceremo che il nostro bisogno, anzi il nostro desiderio, di liberazione venga trattato solo come una questione di ordine pubblico.
Tutto quello che sto raccontando è parte di un processo globale, una torsione autoritaria che il recente Rapporto sui diritti globali, curato da Sergio Segio, definisce «Crimini che si possono definire di sistema, conseguenti a scelte politiche di governi che piegano a interessi particolari i beni comuni e l’interesse generale dei popoli, laddove gli stessi governi sono spesso espressione più o meno diretta di quegli interessi. La globalizzazione neoliberista ha generalizzato e reso più acuti questi processi e più distruttive le loro conseguenze».
E se la pandemia scava nelle diseguaglianze, la risposta dei governi del neoliberismo non possono che difendere quei solchi con la repressione e lo stato d’eccezione. È il capitalismo dei disastri in cui lo choc pandemico serve a produrre ennesimi conflitti orizzontali, tra presunti salvati e veri sommersi, generi, generazioni, utilizzati per enfatizzare l’inarrestabilità dei processi di privatizzazione e di trasferimento della ricchezza verso l’alto. La necessità di tracciare i contagi nutre le tentazioni di blindare il controllo sociale. Questo “capitalismo della sorveglianza” si fonda su due pilastri: la paura e la debolezza delle organizzazioni politiche e sociali del movimento operaio e la subalternità di alcuni settori alla versione “progressista” della governance neoliberista.
*testo tratto dall’Almanacco anticapitalista 2021 pubblicato dalle nostre compagne e dai nostri compagni di Sinistra Anticapitalista (l’Almanacco completo: Un vaccino contro il capitalismo. Ecco l’almanacco anticapitalista da scaricare – Sinistra Anticapitalista)