Pubblichiamo questa interessante intervista a Michael Warschawski, scrittore e giornalista israeliano, condirettore dell’Alternative Information Center di Gerusalemme. (Red)
Cosa cambierà per Israele con la nuova amministrazione statunitense di Biden?
Biden non è meno pro-israeliano delle precedenti amministrazioni sia repubblicane che democratiche.
Ma penso che ci saranno dei cambiamenti. Trump è stato qualcosa di molto particolare per Netanyahu sia perché Trump non conosceva assolutamente la realtà regionale sia perché era assai istintivo con le sue prese di posizione ogni volta che si trattava di Israele. Biden è un vecchio politico che conosce bene i dossier ed è circondato da buoni consiglieri.
C’è un cambiamento importante nella base democratica, in particolare tra i giovani, che non amano per niente l’identificazione totale di Israele e del governo Netanyahu con Trump. Netanyahu si è scontrato frontalmente, probabilmente involontariamente, con i Democratici con questa totale identificazione con Trump. Questo è vero ancora di più riguardo ai giovani ebrei americani democratici che non sostengono Israele incondizionatamente come è stato per la generazione dei loro genitori.
Penso che in quest’ambito vedremo, in una decina d’anni – sono processi che hanno bisogno di tempo – un cambiamento sostanziale nelle posizioni dei Democratici che saranno sempre meno condizionati [da Israele, N. d. T.] rispetto alle tre generazioni precedenti.
Una parte importante dei Democratici, soprattutto fra i giovani, prende posizione contro Israele. Ciò non significa mettere in discussione i fortissimi legami strategici che uniscono Israele e gli Stati Uniti, ma significa raggiungere, in una decina d’anni, uno sguardo verso Israele più distaccato e critico.
Pensi che questi cambiamenti riguarderanno anche i palestinesi?
M.W. Penso effettivamente che l’una cosa non possa avvenire senza l’altra. Un rapporto più critico con Israele significa, un approccio più moderato o più ragionevole riguardo alla questione palestinese sicuramente da quella di Trump che è stata completamente ostile.
L’estate prossima ci saranno delle elezioni politiche in Cisgiordania e a Gaza. I palestinesi di Gerusalemme potranno votare a queste elezioni?
Secondo gli accordi firmati vent’anni fa i palestinesi di Gerusalemme devono votare e la comunità internazionale ha effettivamente insistito su questo. Possono votare a condizione che i seggi siano posti nei sobborghi di Gerusalemme e non in città. Per Arafat era determinante che gli abitanti palestinesi di Gerusalemme potessero partecipare alle elezioni. Infatti, hanno partecipato alle elezioni del 2005. Non credo che gli americani faranno sufficienti pressioni per imporre a Netanyahu la partecipazione dei residenti di Gerusalemme alle prossime elezioni palestinesi.
Sicuramente ci saranno delle dichiarazioni a favore della partecipazione dei palestinesi di Gerusalemme da parte dell’amministrazione americana, che saranno ignorate dal governo israeliano.
Alle prossime elezioni israeliane, le quarte in poco tempo, un’organizzazione islamica palestinese che faceva parte della Lista Araba Unita ha annunciato di volersi staccare e di volersi alleare con Netanyahu. Cosa ne pensi?
Sì, è così. Ma penso che una scelta del genere non avrà una eco significativa tra la popolazione araba, compreso tra gli islamisti, e posa minare l’unità della Lista Araba Unita. Penso che avrà un impatto sulla dinamica di sostegno massiccio che era riuscita a creare la Lista Araba Unita. Credo che ci sarà una forte astensione per disinteresse.
Gli accordi di normalizzazione che Israele ha concluso con Emirati Arabi Uniti e Bahrein e la dinamica che in questo senso è stata innescata sotto la presidenza Trump a tuo parere continuerà con Biden?
M.W. Sì, non vedo alcun segnale che contrasti questo processo di normalizzazione. Questo è stato un grande successo per Israele e personalmente per Netanyahu; ossia vedere normalizzata la “normalizzazione” con Israele. Quindi viene meno il rifiuto che era quasi unanime anche se c’erano già degli accordi raggiunti con Egitto e Giordania. Ma in questo caso c’è la sensazione si sia rotta la diga del rifiuto della normalizzazione; anzi ora c’è una vera e propria concorrenza tra i diversi regimi arabi tra chi normalizza più rapidamente possibile i rapporti con Israele.
L’Arabia Saudita, secondo te, non spera quanto gli altri di normalizzare i suoi rapporti con Israele? O meglio, che si creino le condizioni per far questo?
M.W. Tra Arabia Saudita e Israele esiste un’alleanza forte da molto tempo. Ma che l’Arabia Saudita salti l’ostacolo e normalizzi i suoi rapporti con Israele, di questo non sono sicuro.
Perché?
A causa del suo ruolo simbolico nel mondo arabo, a causa de La Mecca, a causa dei milioni di pellegrini. Penso che i sauditi non abbiano molto interesse a ufficializzare le relazioni molto amichevoli con Israele.
Con Biden sembra che gli Stati Uniti abbiano assunto un atteggiamento ben più severo verso l’Arabia Saudita a causa della guerra in Yemen.
Con Biden la diplomazia americana comincia ad essere meno unilaterale. Ossia, ci sarà della diplomazia, quello che con Trump non c’era. In ogni caso, a questo riguardo nella regione, la chiave di tutto è se Biden ha realmente l’intenzione di riprendere dei contatti con l’Iran. Questo Paese è totalmente boicottato e ridotto a rango di “nemico” a livello regionale e se Biden vorrà tornare a discutere con loro, vi saranno lunghi negoziati discreti. L’Arabia Saudita, secondo me, si muoverà in funzione di questo.
Puoi spiegare la crisi politica israeliana?
Non è il caos, ma una geniale strategia di Netanyahu che è riuscito a polverizzare e schiacciare l’opposizione che era maggioritaria. Il motivo per cui siamo arrivati alle quarte elezioni politiche è che Netanyahu non ha raggiunto la maggioranza per garantirsi l’immunità. Lui deve affrontare tre gravi capi d’imputazione, ma vuole ottenere l’immunità e non essere giudicato. La procedura è assai lunga e lui vuole guadagnare ancora tempo e ci sta riuscendo.
Vuole ottenere una maggioranza sufficiente, e può riuscirci, per questo scopo: l’immunità è l’unica cosa che gli interessi.
L’aspetto importante delle prossime elezioni è la concorrenza tra i quattro partiti di estrema destra. In realtà la posta in gioco è chi vincerà tra questi perché Netanyahu ha distrutto l’alternanza.
Cosa pensi della decisione della Corte Penale internazionale dell’Aia riguardo alla giurisdizione sulla Palestina?
È una cosa molto positiva che arriva molto tardi, che la Corte Internazionale dell’Aia non ha molti strumenti, ma comunque è una cosa molto importante a livello internazionale.
Già da quindici anni ci sono dei Paesi che hanno un sistema di competenza internazionale e preso misure contro criminali di guerra israeliani. Per esempio, Tzipi Livni, ex ministro degli esteri, non è potuta scendere dall’aereo a Londra perché sapeva che appena toccato il suolo britannico sarebbe stata giudicata.
Le norme sono diverse a seconda dei Paesi, è più possibile in Gran Bretagna e in Belgio, ma che dei dirigenti israeliani, politici o militari, siano a rischio di essere arrestati ogni volta che partono all’estero è qualcosa di molto importante.
Netanyahu ha già detto che la Corte dell’Aia è un organo politico e non giudiziario, ovviamente, pieno di antisemiti. A tuo avviso, gli Stati Uniti appoggeranno la Corte Penale Internazionale o Israele?
Gli Stati Uniti saranno ancora a lungo lo scudo diplomatico e giuridico per Israele e non c’è alcuna speranza che Biden cambi posizione su questo, compreso su quest’ultima decisione. In ogni caso, anche se la procedura non dovesse partire, questa decisione è positiva.
Quali prospettive ci sono per l’estrema sinistra israeliana, se questa esiste ancora?
Non c’è un’estrema sinistra israeliana, non c’è una sinistra israeliana. Esiste una mini-sinistra israeliana, fortemente indebolita.
Esiste solo la Lista Unificata, araba, dove ci si può ritrovare. Qui gli ebrei sono minoritari, ma accettati e se vogliamo ancora avere un ruolo dobbiamo riconoscere che la sinistra israeliana è fondamentalmente araba, con una direzione araba. Dobbiamo accettare che non possono alcune centinaia o migliaia di ebrei dire agli arabi cosa fare, ma dobbiamo capire che noi esistiamo solo grazie a questo lavoro comune con gli arabi.
Pensi sia una prospettiva realizzabile?
Sì. Ciò che resta della sinistra sionista è ben più aperta, forse a causa della sua debolezza, rispetto a dieci anni fa, rispetto a un fronte ebraico-arabo; in cui i militanti ebrei hanno il loro posto, ma in cui la leadership è araba.
Malgrado ciò, però, tutte le battaglie di fondo, contro la colonizzazione e per i diritti dei palestinesi sono assenti dallo scenario politico.
Effettivamente c’è stata una “decolonizzazione” del dibattito politico, anche chi è più a sinistra è concentrato sulla corruzione e sulla marcescenza delle istituzioni dello Stato e l’estrema violenza del regime di Netanyahu, con una “depalestinizzazione” del discorso politico, anche a sinistra. Nelle grandi manifestazioni contro Netanyahu non si parla di Palestina, non si parla di colonizzazione, si parla di corruzione, ecc. Cose molto reali, come la brutalità del ministro di polizia. Ma la questione palestinese è assente.
Perché?
Per molte ragioni, tra le quali anche che i palestinesi non si fanno sentire. Sono in una fase che io definisco di sumoud, ossia di resistenza, ma molto lontani da una fase di lotta di liberazione. C’è una forte resistenza, ma non è una fase “eroica” e quindi i palestinesi sono marginali non solo in Israele, ma anche, purtroppo, in generale, nel mondo arabo. Non si può comprendere la facilità della normalizzazione con Israele dei Paesi arabi senza tenere conto che non c’è una forte solidarietà con i palestinesi, perché i palestinesi stessi sono in una fase difensiva.
Non pensi che la marginalità dei palestinesi, soprattutto presso l’opinione pubblica dei Paesi arabi sia dovuta anche al fatto che durante le rivolte arabe sono rimasti ai margini?
È vero, i palestinesi non sono stati all’altezza delle grandi mobilitazioni che ci sono state in Egitto o in Tunisia perché subiscono una dominazione meno sanguinosa di prima, ma più brutale e totalizzante. Poi perché c’è un problema di direzione strategica palestinese, con una leadership screditata perché ha scommesso tutto sul fatto che un giorno ci sarebbero state delle pressioni americane su Israele perché accettasse il diritto internazionale, ecc.
Poi è arrivato Trump e a quel punto i palestinesi hanno capito l’inganno.
*Intervista apparsa su www.rproject.it lo scorso 21 febbraio 2021