Celebre per il suo lavoro sull’Olocausto e sul totalitarismo, Traverso ha ora pubblicato un saggio che interviene nel dibattito politico e mediatico su Gaza. In questa intervista al settimanale uruguayano Brecha, sostiene che la narrativa con cui Israele giustifica il suo genocidio è un ritorno ai pregiudizi colonialisti del XIX secolo e “un insulto alle vittime dell’Olocausto”, mentre critica il paradigma dei “due stati”.
Traverso è attualmente il più celebre storico delle idee del XX secolo. Dottore di ricerca presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, è attualmente titolare della cattedra Susan e Barton Winokur di scienze umane presso la Cornell University di New York. Negli ultimi 30 anni il suo lavoro si è occupato di guerre mondiali, fascismo, genocidi, rivoluzioni e memoria collettiva, temi sui quali ha pubblicato numerose opere. Quest’anno ha pubblicato Gaza davanti alla storia (Laterza, 2024), un saggio in cui si propone di “esaminare con occhio critico il dibattito politico e intellettuale che la crisi di Gaza ha suscitato”, “osservare gli usi pubblici del passato che l’accompagnano”, nonché “riflettere sulle strumentalizzazioni spesso discutibili e talvolta spregevoli a cui è stata sottoposta”.
Primo Levi, in un passo di Se questo è un uomo, a proposito dell’orrore e della disumanizzazione vissuti durante la sua prigionia ad Auschwitz, scriveva: “Se un messaggio poteva essere rivolto agli uomini liberi dall’interno del campo, sarebbe stato questo: non fate mai quello che ci fanno qui”. Come è stato possibile che, a distanza di qualche decennio, lo stato di Israele possa affermarsi con una politica di apartheid e suprematismo?
Questa osservazione fu fatta dallo stesso Primo Levi nel 1982, pochi anni prima della sua morte, all’epoca della guerra del Libano, in un’intervista molto forte in cui definì il primo ministro Menachem Begin un fascista. In altre parole, il fenomeno non è nuovo, ma ovviamente sta superando i limiti estremi. Con esso, la memoria dell’Olocausto è cambiata profondamente. Per decenni, oltre a ricordare le vittime del nazismo, la memoria dell’Olocausto si è configurata come una memoria collettiva il cui significato è “mai più”: deve essere ricordata affinché nulla di simile possa accadere di nuovo nel mondo. In questo senso, la memoria dell’Olocausto ha svolto un ruolo di modello per la costruzione di altre memorie di violenza e genocidio, ad esempio in America Latina e nel caso delle vittime delle dittature del Cono Sud.
Ma dopo alcuni decenni, la memoria dell’Olocausto ha subito una metamorfosi ed è diventata una sorta di legittimazione a priori e incondizionata della politica israeliana, che è una politica di colonizzazione, espropriazione e oppressione dei palestinesi. La memoria dell’Olocausto è stata strumentalizzata – negli Stati Uniti si dice “weaponized” (armata) – per diventare una sorta di innocenza ontologica di Israele, che può quindi fare tutto ciò che vuole, perché lo fa sempre con la legittimità che deriva dalla sua pretesa di rappresentare le vittime dell’Olocausto, con una legittimità che deriva dalla fondazione di Israele come risposta all’Olocausto. Questa narrazione, che è una menzogna e probabilmente un insulto alle vittime dell’Olocausto, deve essere messa in discussione, perché il paradosso veramente ignobile è che la memoria di un genocidio viene rivendicata per giustificare un altro genocidio.
È un paradosso vergognoso che può avere conseguenze molto gravi. Infatti, se rifiutare il genocidio a Gaza significa ora essere antisemiti, la conclusione che si potrebbe trarre è che l’antisemitismo non è poi così male. Se la memoria dell’Olocausto serve a legittimare il genocidio dei palestinesi, allora non sarebbe una memoria così buona. Molti cominceranno addirittura a pensare che l’Olocausto non sia esistito, che sia un mito creato da Israele per difendere le proprie politiche. Il paradosso è che questa strumentalizzazione politica della memoria dell’Olocausto e dell’antisemitismo può finire per legittimare l’antisemitismo o il negazionismo.
Storicamente, l’ultradestra occidentale è stata profondamente antisemita, non solo in Europa, ma anche in America Latina. Oggi questa stessa ultradestra fa della Stella di Davide il suo emblema e di Benjamin Netanyahu un punto di riferimento, mentre, come lei ha detto, accusa di antisemitismo qualsiasi espressione di solidarietà con la Palestina. Come si può comprendere questo cambiamento e quali conseguenze ha?
Precisamente, la trasformazione della memoria della Shoah è lo specchio di un’altra metamorfosi altrettanto importante, se non di più. Un altro paradosso: l’estrema destra è oggi molto filo-sionista, molto vigorosa nel suo sostegno incondizionato allo stato di Israele e alle sue politiche. È il caso del mio paese, l’Italia, dove il capo del governo, Giorgia Meloni, orgogliosa erede del fascismo, una tradizione politica che ha installato le leggi antisemite del 1938 ed è stata complice dell’Olocausto, oggi si appropria della memoria dell’Olocausto e la rivendica per legittimare la sua forza politica. Si tratta di un fenomeno diffuso. L’estrema destra ha raggiunto una rispettabilità che prima non aveva. Rivendicare la memoria dell’Olocausto e il sostegno incondizionato a Israele è anche il mezzo per legittimare le proprie politiche xenofobe e islamofobe. Si tratta di un fenomeno perverso emerso negli ultimi due decenni, che rischia di indebolire la coscienza storica comune, la consapevolezza politica, la definizione stessa di cosa siano i diritti umani, di cosa significhi lottare contro l’oppressione, l’esclusione e il razzismo, in un panorama che diventa confuso, sfocato, in cui i termini delle cose si invertono.
Il suo saggio smonta la narrazione che presenta Israele come un’isola di civiltà e democrazia in una regione oscurantista e fondamentalista. Lei colloca il sionismo all’interno della genealogia intellettuale del pensiero anti-illuminista e sottolinea che stiamo assistendo a una sorta di ritorno al XIX secolo, quando l’Occidente compiva genocidi in nome della “civiltà” contro la “barbarie”. Come è avvenuto questo processo storico di incorporazione di Israele nell’Occidente e la sua formazione – per usare la sua espressione – come “stato teologico-colonialista”?
C’è una visione che era, e forse è ancora, abbastanza comune nella cultura di sinistra, che è quella di Israele come uno stato creato dall’imperialismo per difendere i suoi progetti geopolitici nel mondo arabo. In realtà, Israele è nato in circostanze storiche del tutto straordinarie dopo la Seconda guerra mondiale, in virtù di un accordo tra Stati Uniti e Unione Sovietica e un altro con il Regno Unito, in un momento di consenso del blocco alleato. L’ultimo momento di unità della coalizione antinazista. Quando Israele fu creato in virtù di questo voto dell’ONU, la Guerra Fredda era già iniziata e questa coalizione era stata smantellata, ma Israele nacque anche con il sostegno dell’Unione Sovietica. Israele ha combattuto la prima guerra arabo-israeliana con armi provenienti dalla Repubblica Cecoslovacca. In seguito è diventato un avamposto degli interessi geopolitici statunitensi nella regione.

Direi che questo ruolo è diventato chiaro dopo il 1967, con la Guerra dei Sei Giorni. Da quel momento si è diffusa una narrazione che oggi viene ripetuta dalla stragrande maggioranza dei capi di governo del mondo occidentale, che descrive Israele come un’isola democratica circondata dall’oscurantismo islamista. Questo discorso, che non è nuovo, è diventato molto forte dopo il 7 ottobre 2023 grazie al bombardamento mediatico. Quello che osservo è una sorta di spaventoso revival e rivitalizzazione di un vecchio pregiudizio orientalista. Ovvero una visione dicotomica del mondo in cui, da un lato, l’Occidente è l’incarnazione della razionalità, del progresso e dei diritti umani e, dall’altro, il mondo arabo e l’Islam sono l’incarnazione della barbarie, del fanatismo e dell’oscurantismo. Questo è il discorso che Netanyahu ha fatto alle Nazioni Unite qualche settimana fa ed è una sorta di cliché.
Ciò che mi sorprende è che questo discorso, nato nel XIX secolo con l’obiettivo di legittimare l’idea del colonialismo come missione civilizzatrice, venga riproposto oggi, nel mondo globale del XXI secolo. Potrebbe sembrare ridicolo se non fosse tragico, perché è il discorso della campagna mediatica che giustifica un genocidio in corso.
*L’intervista, condotta da Agustín Cano, è apparsa sulla rivista uruguiana Brecha il 28 novembre 2024.