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Morti sul lavoro, passaporti confiscati, salari da fame, orari estenuanti, sorveglianza continua e repressione sindacale. Dalle fabbriche cinesi in Serbia e Indonesia emerge un modello sistematico di violazione dei diritti dei lavoratori che si ripete negli altri paesi della Belt and Road Initiative, le cosiddette “nuove vie della seta”. La retorica di Pechino sulla “cooperazione win-win” nasconde una nuova forma di colonialismo industriale.

I templi dello sfruttamento: da Morowali a Zrenjanin

Il complesso industriale di Morowali, nell’Indonesia orientale, è una megalopoli industriale che ha trasformato radicalmente il volto di questa regione remota. Su un’area di 4.000 ettari – equivalente a quasi 6.000 campi da calcio – questo titanico sito di lavorazione del nichel impiega oltre 84.000 lavoratori, una città nella città dominata dalle ciminiere delle acciaierie e dal rumore incessante della produzione. Il complesso, controllato dal colosso cinese Tsingshan Holding Group, ospita circa 50 aziende, la maggior parte delle quali sono sue sussidiarie, impegnate nella produzione di nichel e acciaio inossidabile. Un impero industriale alimentato da centrali elettriche a carbone costruite appositamente, che hanno trasformato quello che era un territorio vergine in uno dei più grandi poli siderurgici al mondo.

Dal 2020, quando l’Indonesia ha vietato l’esportazione di minerale grezzo di nichel, Morowali è diventato il centro nevralgico della produzione mondiale di questo metallo essenziale per le batterie dei veicoli elettrici e per l’acciaio inossidabile.

In Serbia, le due principali realtà produttive cinesi presentano caratteristiche simili, seppur su scala minore. La Zijin Mining Group, che gestisce due miniere di rame – una a Bor e l’altra a Cukaru Peki – ha prodotto 240.000 tonnellate di rame nel 2023, diventando il secondo produttore europeo. L’azienda ha acquisito nel 2018 la miniera di Bor, storicamente in perdita, trasformandola in sei mesi in una delle aziende più redditizie della Serbia, a un prezzo umano che emerge dalle testimonianze dei lavoratori. Solo nel gennaio 2024, la Cina ha investito 2,18 miliardi di dollari per la costruzione di un parco eolico, un impianto solare e un impianto a idrogeno destinati ad alimentare le operazioni della miniera di rame di Bor.

La fabbrica di pneumatici Linglong a Zrenjanin, inaugurata nel 2021, rappresenta un altro esempio emblematico. Con una capacità produttiva prevista di 13,6 milioni di pneumatici all’anno, l’impianto è stato costruito grazie a generosi sussidi statali serbi, in un’area dove le normative ambientali e del lavoro sembrano essere state sistematicamente ignorate.

Questi complessi industriali sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più vasto, osserva China Labor Watch. Dal Kazakhstan al Pakistan, dall’Africa all’America Latina, le aziende cinesi replicano lo stesso modello: investimenti massicci in aree economicamente depresse, dove la disperazione dei lavoratori locali e la debolezza delle istituzioni permettono di imporre condizioni di lavoro che sarebbero impensabili in altri contesti.

Il prezzo del profitto: una catena di morti e incidenti

Il 25 ottobre 2024, scrive il Financial Times, un’esplosione ha squarciato il silenzio della fabbrica Dexin Steel Indonesia nel complesso di Morowali. Un operatore di gru, Gunawan, è rimasto intrappolato tra le fiamme mentre i colleghi gridavano disperati “C’è qualcuno dentro!”. Gunawan non ce l’ha fatta. È solo una delle nove vittime registrate negli impianti di nichel indonesiani nel 2024.

Ma gli incidenti mortali sono solo la punta dell’iceberg. Il personale medico della clinica interna a Morowali riferisce di “incidenti quasi quotidiani”. Dal 2015 al primo semestre del 2024, le strutture per il nichel in Indonesia hanno registrato 114 incidenti, con 101 morti e 240 feriti. Quasi la metà di questi decessi è avvenuta a Morowali. Solo nel primo semestre del 2024, Trend Asia ha documentato cinque incidenti a IMIP e dodici in altri impianti indonesiani, con otto morti e 63 feriti.

Il caso più grave è avvenuto nel 2023 alla Indonesia Tsingshan Stainless Steel, dove un’esplosione ha ucciso 21 lavoratori – la peggiore tragedia nella storia del parco industriale. L’indagine governativa ha rivelato “forti indicazioni di violazioni delle procedure operative standard e negligenza nell’applicazione degli standard di sicurezza industriale”.

La situazione nelle fabbriche serbe rispecchia lo stesso modello. Alla Zijin Mining, i lavoratori denunciano l’assenza totale di limiti ai tempi di lavoro. I turni di 12 ore, sei giorni alla settimana, sono la norma. Un ex dipendente della Ruipu Nickel & Chrome Alloy mostra cicatrici da ustioni che coprono le braccia: “Lavoravo ai forni senza protezioni adeguate. Il salario non compensava minimamente i rischi.”

Ciò che rende la situazione ancora più grave è il sistema di insabbiamento degli incidenti. “Segnalare gli incidenti sul lavoro viene considerato come divulgare segreti aziendali”, riferisce un dipendente della ITSS. I lavoratori vengono penalizzati economicamente se denunciano gli incidenti, con decurtazioni dello stipendio o “lettere di avvertimento”.

I lavoratori vengono frequentemente spostati tra diverse aziende senza adeguata formazione sulle specifiche procedure di sicurezza del nuovo posto di lavoro.

Pratiche coercitive e controllo totale

Il sistema di controllo dei lavoratori nelle fabbriche cinesi all’estero presenta caratteristiche che rientrano nella definizione di lavoro forzato secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO). La confisca dei passaporti, pratica universalmente condannata come violazione dei diritti umani, è sistematica sia in Serbia che in Indonesia.

Alla Linglong Tire Factory in Serbia, il 100% dei lavoratori immigrati intervistati da China Labor Watch tra luglio e ottobre 2024 ha subito il sequestro del documento di identità. La procedura è standardizzata: all’arrivo, i passaporti vengono immediatamente requisiti con la scusa della “custodia” o di “pratiche amministrative”. Per riaverli, i lavoratori dovrebbero versare una cauzione, ma nessuno degli intervistati ne conosce l’importo esatto, e nessuno ha mai osato chiederlo. Solo i lavoratori dello Zambia, consapevoli dell’illegalità della pratica, sono riusciti a mantenere il possesso dei propri documenti.

Il controllo si estende agli spazi abitativi. I lavoratori cinesi, che costituiscono circa il 13% della forza lavoro a Morowali e una percentuale significativa in Serbia, vivono in dormitori all’interno dei complessi industriali, in condizioni che ricordano più un campo di lavoro che un alloggio dignitoso. A Bor, in Serbia, dopo che un lavoratore cinese è stato trovato privo di sensi per strada, l’intera forza lavoro cinese è stata confinata all’interno del complesso minerario per settimane, con il pretesto di un “timeout di sicurezza”.

La sorveglianza è pervasiva e sofisticata. A Zrenjanin, durante le interviste con i lavoratori nel centro città – nel loro giorno libero – un supervisor in bicicletta si è immediatamente avvicinato per monitorare la conversazione. I lavoratori si sono dispersi rapidamente, visibilmente intimoriti.

La libertà di movimento è drasticamente limitata, soprattutto per i lavoratori cinesi. Chi non rispetta le regole o non raggiunge gli obiettivi di produzione subisce punizioni immediate. Un lavoratore della Linglong racconta: “Hanno cambiato il mio alloggio perché ho lavorato meno di 26 giorni questo mese. Ora vivo all’inferno, dove stanno i cani.” Il trasferimento in alloggi peggiori è una forma comune di punizione.

Il controllo si estende anche alla vita privata dei lavoratori. L’uso dei telefoni cellulari durante il lavoro è vietato, ufficialmente per ragioni di sicurezza, ma in realtà per impedire la documentazione delle condizioni di lavoro. I contatti con l’esterno sono scoraggiati, e chi viene sorpreso a parlare con giornalisti o attivisti rischia il licenziamento immediato.

# Il dramma dei lavoratori migranti e lo sfruttamento economico

Il sistema di reclutamento dei lavoratori migranti rivela un meccanismo studiato per creare dipendenza e vulnerabilità. Per ottenere il lavoro, molti devono pagare alle agenzie di reclutamento somme esorbitanti, che vanno da 1.400 a 4.800 dollari – fino a un anno e mezzo di stipendio. Questi debiti creano una forma moderna di servitù, costringendo i lavoratori ad accettare qualsiasi condizione pur di ripagare il prestito.

La composizione della forza lavoro è strategicamente diversificata per evitare la formazione di gruppi coesi. A Morowali, accanto ai lavoratori indonesiani, ci sono contingenti dalla Cina, dal Vietnam e da altri paesi asiatici. In Serbia, nelle fabbriche Zijin e Linglong lavorano serbi, cinesi, ma anche indiani, nepalesi e zambiani. Questa frammentazione, unita alle barriere linguistiche, rende difficile qualsiasi forma di organizzazione collettiva.

Lo stato di precarietà è aggravato dall’incertezza sui permessi di lavoro. Alla domanda se abbiano un permesso valido, molti lavoratori rispondono affermativamente, ma non sono in grado di mostrare alcuna documentazione. Un lavoratore ha raccontato che il suo datore di lavoro gli aveva detto che aveva un visto di lavoro, ma quando c’è stata un’ispezione ha scoperto che il suo visto era scaduto e che il suo datore di lavoro non ne aveva richiesto il rinnovo. Di conseguenza, gli è stata comminata una multa di 360 dollari.

Il sistema retributivo è strutturato per massimizzare lo sfruttamento. Lo stipendio di base in Serbia è di circa 240 dollari al mese, appena sopra il minimo legale. Ma questo viene eroso da un complesso sistema di penalità e trattenute. Gli straordinari, praticamente indispensabili se si vuole sopravvivere, spesso non vengono pagati. I lavoratori sono costretti a turni di 12 ore, sei giorni alla settimana (circa 26 giorni al mese), ma le 4 ore giornaliere di straordinario non vengono retribuite.

Alla Linglong, i nuovi assunti hanno dovuto aspettare due mesi prima di ricevere il primo stipendio. “Da quando sono arrivato a luglio, ho ricevuto solo 8 giorni di paga”, racconta un lavoratore intervistato a metà settembre. Il ritardo nei pagamenti è un’altra forma di controllo: senza stipendio, i lavoratori non possono permettersi di cercare altre opportunità.

La mancanza di copertura sanitaria è un altro aspetto critico. “Non abbiamo assistenza medica, se ti ammali devi comprare le medicine da solo”, spiega un lavoratore della Zijin. Gli infortuni sul lavoro, frequenti date le scarse misure di sicurezza, possono tradursi in catastrofi economiche per i lavoratori, che devono sostenere personalmente le spese mediche.

La complicità dei governi e la repressione delle libertà sindacali

Lo sfruttamento sistematico dei lavoratori è reso possibile da un complesso sistema di accordi bilaterali che di fatto creano zone franche dove le leggi sul lavoro locali sono sospese. L’esempio più eclatante è l’accordo del 2018 tra Serbia e Cina, che sospende l’applicazione delle leggi sul lavoro serbe per i lavoratori cinesi nei primi cinque anni del loro soggiorno: durante tale periodo ai lavoratori viene applicato il diritto del lavoro cinese. Una clausola particolarmente grave dell’accordo stabilisce che gli ispettori del lavoro serbi non sono autorizzati a controllare i contratti dei lavoratori cinesi né a verificare se vengono pagati.

Questa zona grigia legale si estende di fatto anche ai lavoratori non cinesi. La maggior parte di loro si trova in un limbo burocratico: anche nel loro caso i permessi di lavoro vengono promessi ma mai concretizzati, creando una condizione di costante ricattabilità. L’assenza di documenti in regola impedisce loro di accedere alle tutele previste dalla legge serba sul lavoro, creando una massa di lavoratori di fatto privi di diritti.

In Indonesia, la situazione non è migliore. Il governo ha modificato le leggi per facilitare gli investimenti cinesi, allentando le normative ambientali e del lavoro. Il Ministero del Lavoro indonesiano non ha fornito dati sugli incidenti negli impianti di nichel, nonostante le ripetute richieste, suggerendo una volontà di non interferire con le operazioni delle aziende cinesi.

Particolarmente preoccupante è la sistematica repressione dell’attività sindacale. In Serbia, i lavoratori che si iscrivono ai sindacati subiscono immediate ritorsioni. “Mi hanno vietato gli straordinari quando hanno scoperto che mi ero iscritto al sindacato”, racconta un lavoratore della Linglong. La sorveglianza costante e le intimidazioni creano un clima di paura che scoraggia qualsiasi forma di organizzazione dei lavoratori. Le riunioni sindacali devono essere tenute in segreto, spesso in luoghi distanti dalla fabbrica per evitare ritorsioni.

Le autorità locali sembrano complici di questo sistema. A Zrenjanin, la presenza di agenti in borghese durante gli incontri tra lavoratori e giornalisti dimostra una collaborazione attiva tra le forze dell’ordine locali e il management delle fabbriche cinesi. Lo stesso accade a Morowali, dove la polizia locale interviene prontamente per disperdere qualsiasi tentativo di protesta od organizzazione dei lavoratori.

Il contrasto tra la retorica ufficiale cinese e la realtà sul campo non potrebbe essere più stridente. Mentre Pechino parla di “cooperazione win-win” e di “comunità dal futuro condiviso”, le sue aziende replicano all’estero le peggiori pratiche di sfruttamento del lavoro. Il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti ha inserito il nichel indonesiano nella lista dei beni prodotti con lavoro forzato, ma questa decisione non ha portato a cambiamenti significativi nelle pratiche aziendali

La Belt and Road Initiative si rivela così non come un programma di sviluppo condiviso, come la presenta Pechino, ma come uno strumento di dominio economico che perpetua e modernizza forme di sfruttamento di stampo coloniale. Le aziende cinesi, protette da accordi bilaterali compiacenti e dalla debolezza delle istituzioni locali, hanno creato un sistema di sfruttamento del lavoro che ricorda le pagine più buie della rivoluzione industriale. Un sistema che prospera nell’ombra, lontano dagli occhi dell’opinione pubblica internazionale, ma che segna profondamente le vite di decine di migliaia di lavoratori.

*articolo apparso il 2 dicembre 2024 sul sito crisi globale (fonti: China Labor Watch, Financial Times).