Kashmir, India, Pakistan. La posta in gioco per gli internazionalisti

Tempo di lettura: 8 minuti
image_print

Questo articolo cerca di fare il punto sulla drammatica recente crisi che ha contrapposto India e Pakistan sulla questione del Kashmir. Molti fattori devono essere presi in considerazione. Certo, i recenti eventi si inseriscono in una lunga storia di tensioni militari e guerre che risalgono alla disastrosa spartizione imposta al subcontinente dall’imperialismo britannico nel 1947. Tuttavia, il periodo recente ha visto profondi cambiamenti che hanno interessato i paesi coinvolti, così come l’ambiente geopolitico, la gestione regionale delle risorse idriche e gli armamenti utilizzati. Pertanto, non si può presumere che la storia si ripeterà quasi identica. Forse è questa la domanda principale: cosa c’è di nuovo? Ovviamente, spetta alle organizzazioni di sinistra della regione rispondere per prime a questa domanda. Mi limiterò a proporre al dibattito e alla critica alcuni elementi di analisi o ipotesi, anche se questo significa dover rivedere il mio pensiero sull’argomento.

La spartizione del 1947 ha imposto un gigantesco spostamento forzato di popolazione lungo le linee religiose, che ha interessato circa 15 milioni di persone. La popolazione musulmana fu raggruppata in Pakistan a ovest (nel bacino dell’Indo) e a est del subcontinente (nel bacino del Gange, con il Pakistan orientale diventato Bangladesh dopo la guerra di indipendenza del 1971). Tuttavia, ancora oggi esiste una significativa popolazione musulmana nello stato indiano di Hyderabad. Molte, ma non tutte, le popolazioni indù che vivono in territorio musulmano si sono unite all’India.
Il Kashmir è un paese himalayano incluso nei confini dell’Impero britannico. Ha una popolazione a maggioranza musulmana. È stato diviso dalla cosiddetta spartizione incompleta del 1947 e dalla prima guerra indo-pakistana che ne è seguita. Era stato promesso un referendum sull’autodeterminazione, ma evidentemente non si è mai tenuto. Oggi il Pakistan occupa i territori dell’Azad Kashmir e del Gilgit-Baltistan, l’India i territori del Jammu e Kashmir e del Ladakh e la Cina l’Aksai Chin e la Valle dello Shaksgam.

Tensioni continue e tre guerre

Le conseguenze della politica imperiale del divide et impera sono ancora presenti, ma soprattutto perché vengono costantemente riaccese dalle élite al potere. Questo stato latente di guerra a bassa intensità viene utilizzato dai regimi pakistano e indiano per emarginare o mettere a tacere l’opposizione, invocare (con alterni successi) l’unità nazionale, distogliere l’attenzione dai problemi sociali, giustificare le dimensioni dei bilanci militari e così via.
Finora sono state combattute tre guerre ad alta intensità. La prima, nel 1947-1949, dopo la spartizione. Si è conclusa sotto gli auspici dell’ONU con l’istituzione di una linea di controllo che divide il Kashmir in due (ma non è un confine riconosciuto). La seconda, nel 1965-1966, e la terza, nel 1999, sulle alture di Kargil, hanno causato diverse migliaia di morti da entrambe le parti. I combattimenti si svolgono ad alta quota, in condizioni molto dure.
L’India ha acquisito armi nucleari nel 1974 in risposta alla Cina, con la quale ha anche un conflitto sul confine himalayano. Il Pakistan ha importato la tecnologia necessaria e ha condotto i primi test nel 1998 (è l’unico paese musulmano a possederle). Tuttavia, come in Europa, l’equilibrio del terrore non ha posto fine ai conflitti militari, anche se la situazione è molto diversa da quella della penisola coreana, dove è difficile ignorare i rischi di una ricaduta. Da parte sua, la Francia cerca di normalizzare politicamente l’idea dell’uso dell’arma nucleare evocando la sua ricerca sulle armi tattiche, una pericolosa cortina di fumo. Il disarmo nucleare universale rimane un’urgenza fondamentale.

Lo sviluppo della crisi attuale

Il 22 aprile, un gruppo religioso armato ha commesso un attacco a Pahalgam, nel Kashmir orientale (occupato dall’India). L’India ha incolpato il Pakistan dell’attacco. Il 7 maggio, Nuova Delhi ha lanciato l’operazione Sindoor. Oltre al consueto fuoco di artiglieria su entrambi i lati della linea di controllo del Kashmir, i suoi aerei e droni hanno attaccato numerosi obiettivi in territorio pakistano. Il conflitto si è inasprito e il Pakistan ha inviato droni per distruggere obiettivi all’interno dell’India, compresi gli aeroporti.
In entrambi i paesi, i media hanno alimentato il nazionalismo guerrafondaio. Ma è chiaro che l’uso massiccio dei droni, in particolare, ha cambiato le regole del gioco. E la borghesia indiana, che si era unita all’isteria patriottica, ha smaltito la sbornia e ha chiesto al primo ministro Narendra Modi di accettare un cessate il fuoco. L’India sta cercando di sfruttare il conflitto tra Washington e Pechino per attirare capitali internazionali. Accendere le braci dell’ideologia anti-musulmana è un bene per la politica etno-nazionalista del Bharatiya Janata Party (BJP, il partito di Modi), che mira a completare il processo di liberalizzazione indù del paese, ma l’insicurezza militare è negativa per gli affari.
La potenza indiana ha sempre provato un senso di superiorità nei confronti del vicino pakistano. La demografia, la “profondità strategica” (cioè la distanza tra la linea del fronte e i centri fondamentali del paese, quali aree industriali, città altamente popolate e centri che ospitano le sedi delle strutture statali, che nel caso dell’India misurano circa 1600 km da est a ovest, ndt), la capacità economica e, oggi, un’ideologia razzista alimentano questa sensazione. Dal punto di vista strategico, il Pakistan non ha questi vantaggi. I legami di lunga data dei servizi segreti dell’esercito con i Talebani afghani al confine nord-occidentale avrebbero dovuto rendere l’Afghanistan un paese amico, conferendogli una certa profondità strategica. Tuttavia, i Talebani afghani sono ora diventati i suoi principali nemici, in quanto sostengono i Talebani pakistani.
Ma la difesa del Pakistan si è dimostrata più efficace del previsto. I suoi piloti sembrano essere meglio addestrati di quelli del suo vicino più grande. Dispone di una flotta aerea e di missili cinesi che possono raggiungere l’attaccante da molto lontano. Così, secondo quanto riferito, sono stati abbattuti cinque aerei indiani, tra cui il Rafale francese, le cui capacità di contromisure per proteggere i missili non sembrano essere state efficaci o non sono state attivate. Tuttavia, Islamabad non può sostenere uno sforzo bellico prolungato. Il paese è impantanato in un debito enorme ed è sottoposto a forti pressioni da parte del FMI. 
Con entrambi i paesi che rivendicavano la vittoria, la firma dell’accordo di cessate il fuoco è stata imposta il 10 maggio e annunciata il 12 maggio. Dopo aver scaldato i sostenitori del BJP, che non capiscono questa tregua, Narendra Modi ha dichiarato che l’operazione Sindoor non era finita, che era addirittura diventata una politica permanente del governo. In questo modo, il BJP si sta preparando per le importanti elezioni che lo attendono, in particolare nello stato del Bihar, continuando a fomentare l’odio anti-musulmano contro il suo vicino e contro la grande comunità musulmana indiana, che rappresenta il 15% della popolazione totale del paese. Anche la comunità cristiana è un bersaglio del fondamentalismo indù, sostenitore del suprematismo indù (la cosiddetta Hindutva).

Chi ha commesso l’attacco di Pahalgam?

Chi compone il gruppo armato fondamentalista che ha compiuto l’operazione terroristica del 22 aprile a Pahalgam, nel Kashmir occupato dall’India, attentato che ha causato 26 vittime innocenti? L’India ha immediatamente denunciato la Lashkar-e-Taiba (LET), il che le permette di coinvolgere direttamente Islamabad, poiché la LET è effettivamente legata all’esercito pakistano. Tuttavia, non vi è alcuna indicazione che questo sia il caso. 
Pur rifiutandosi di sostenere il regime indiano e di inserirsi in una dinamica di unità nazionale (come hanno fatto i due grandi partiti di sinistra, il Partito Comunista Indiano e il Partito Comunista Indiano marxista), i compagni indiani sembrano convinti che l’attacco di Pahalgam sia stato ordinato dai servizi pakistani. Ciò che mi colpisce è che apparentemente non si prende in considerazione la possibilità, o addirittura la probabilità, che l’azione (assolutamente condannabile per la sua natura terroristica) sia stata compiuta da un gruppo propriamente kashmiro. Un’ipotesi che merita di essere presa in seria considerazione.
Questo gruppo ha operato lontano dalla linea di demarcazione, senza mezzi sofisticati, apparentemente con armi tipiche di qualsiasi gruppo di guerriglia (armi automatiche, ma senza esplosivi di qualità), in un’area ultra-militarizzata dove gli spostamenti a lunga distanza sono pericolosi. La situazione in Jammu e Kashmir continua a peggiorare per gli abitanti, sia dal punto di vista sociale che religioso. Lo status di autonomia di cui gode il territorio non ha mai significato molto nella pratica, ma la sua abrogazione nel 2019 ha preannunciato un brutale inasprimento della politica coloniale di espropriazione perseguita da Nuova Delhi, spingendo una dinamica di induistizzazione dell’amministrazione, con tutto quello che ciò comporta. Sono scomparse così tante persone che si parla di semi-vedove, donne che non sanno se i loro mariti sono vivi o morti. Questa situazione repressiva viene denunciata senza ambiguità dai compagni indiani. In queste condizioni, sarebbe sorprendente se non si formasse un gruppo di resistenza locale. Le condizioni sono molto meno drastiche nei territori kashmiri sotto amministrazione pakistana.
Non c’è dubbio che l’esercito e l’Inter-Service Intelligence (ISI, i servizi segreti pakistani) abbiano addestrato e allenato le organizzazioni terroristiche che operano in Jammu e Kashmir. Recentemente, tuttavia, la situazione è cambiata. Secondo quanto riferito, la maggior parte delle formazioni fondamentaliste con sede in Pakistan si è autonomizzata e persegue ora i propri obiettivi. Per quanto riguarda i Talebani afghani, essi sostengono i Talebani pakistani (Tehreek-e-Taliban Pakistan, TTP), che combattono contro l’esercito e controllano parte del territorio. Dispongono di armi pesanti provenienti dalle scorte abbandonate dagli Stati Uniti e dai loro alleati locali quando lasciarono precipitosamente l’Afghanistan nel 2021.
Il Pakistan ha vissuto a lungo sotto regimi militari diretti o indiretti (come oggi, con il governo di Shehbaz Sharif come facciata), e i periodi democratici non sono stati altro che intermezzi. Tuttavia, sta attraversando una crisi di regime probabilmente senza precedenti. L’esercito pakistano è profondamente impopolare da quando ha imprigionato il suo ex protetto, Imran Kahn, che era diventato troppo potente e godeva ancora di una sorprendente popolarità. L’alto comando pakistano ha sbraitato all’indomani dell’attentato nel tentativo di ripulire la propria immagine, ma l’appello all’unità nazionale dietro la casta militare sembra rimanere, per ora, lettera morta, a prescindere dalla rabbia provata dalla popolazione dopo gli attacchi dell’Operazione Sindoor che, oltre alle installazioni militari, ha preso di mira le scuole religiose (madrasa) e le moschee che non erano più centri di addestramento fondamentalisti.

Geopolitica dell’acqua e del potere

Recentemente, la tensione regionale si è notevolmente aggravata a causa della decisione del governo Modi di sospendere il trattato sull’Indo. L’equa condivisione delle sue acque è vitale per il Pakistan, poiché contribuisce all’irrigazione dell’agricoltura del Punjab, il granaio del paese. Firmato nel 1960, il trattato fornisce un meccanismo stabile di cooperazione tra i due paesi, abbastanza insolito da essere degno di nota. Questa sospensione, presa all’indomani dell’attacco di Pahalgam, equivale a un vero e proprio atto di ostilità. Come è noto, nell’era del riscaldamento globale, il controllo delle risorse idriche è diventato una sfida strategica ancora più importante che in passato.
La Turchia e alcuni stati del Vicino e Medio Oriente sono intervenuti come mediatori per fermare gli scontri. Inoltre, difenderanno il Pakistan, uno dei paesi musulmani più grandi del mondo insieme all’Indonesia e quello che potrebbe dare loro accesso alle armi nucleari. Ma le due potenze che hanno un peso nel conflitto restano gli Stati Uniti e la Cina. Chi può prevedere cosa farà Trump domani? Rimane Pechino.
Il corridoio pakistano è di importanza cruciale per il regime cinese, poiché gli permette di aggirare l’India da ovest per accedere all’oceano. La rotta nord-sud che conduce al porto di Gwadar (in costruzione) inizia nel Kashmir amministrato dal Pakistan (nel Gilgit-Baltistan) e termina nel Balochistan, una zona di conflitto dove operano diversi movimenti di resistenza pro-indipendenza (a volte sostenuti dall’India?) e dove l’esercito pakistano non usa mezzi termini (anche qui le persone scompiono). Gli investimenti cinesi sono ingenti e le forze armate di Pechino sono presenti lungo tutto il corridoio, sotto la copertura dei servizi di sicurezza delle aziende… cinesi. Il controllo di Pechino è talmente evidente da aver provocato qualche agitazione tra le élite pakistane, anche se sembra un fatto compiuto.
È un fatto che il regime di Modi non può permettersi di ignorare.

Prendere in considerazione il nuovo, decentrare lo sguardo, agire da internazionalisti

Dobbiamo pensare il nuovo. Nel caso in questione, il nuovo è considerevole: in India, le dinamiche escludenti dell’Hindutva (Modi rivendica gli interi confini dell’ex Impero britannico); in Pakistan, una grave crisi di regime in un paese afflitto da regionalismo e conflitti armati; una riorganizzazione della geografia dei movimenti fondamentalisti; l’accelerazione degli effetti della crisi climatica; il rinnovamento delle sfide geopolitiche con l’incognita di una nuova crisi di regime, in cui gli Stati Uniti stanno affondando e le cui ripercussioni saranno globali.
È normale che, in un primo momento, ogni organizzazione analizzi lo stato della crisi regionale, per così dire, dalla prospettiva del proprio paese e del proprio orientamento politico. Tuttavia, per approfondire l’analisi e agire insieme al di là dei confini, è necessario sforzarsi di guardare la situazione come la vedono gli altri paesi coinvolti nella crisi (e le altre organizzazioni con cui si vuole agire).
Questo vale in Europa (per gli europei occidentali vedere la guerra in Ucraina come viene vissuta nell’Europa orientale), o per un europeo che cerca di capire una crisi lontana in Asia…
L’internazionalismo è ovviamente il filo conduttore delle forze che si dichiarano di sinistra in caso di conflitto militare. Per la maggior parte, i compagni dei paesi interessati hanno mantenuto questa linea controcorrente e di fronte a forti pressioni, mantenendo le loro posizioni contro l’unità nazionale e il militarismo, a favore del pieno riconoscimento del diritto dei kashmiri all’autodeterminazione, un dovere primario per i militanti pakistani, indiani e… cinesi.
L’attuazione di questo diritto all’autodeterminazione non è facile, anche perché ogni territorio kashmiro ha vissuto per decenni la separazione. Tuttavia, finché il diritto all’autodeterminazione della popolazione kashmira non sarà riconosciuto, non ci sarà una soluzione duratura a una crisi regionale che molte potenze consolidate, statali e non, strumentalizzano.

*articolo apparso su viento sur il 17 maggio 2025.

articoli correlati

Le lacrime di coccodrillo di un liberalismo agonizzante

Italia. Sui referendum abbiamo perso, ripartiamo dai movimenti sociali

Condizioni di lavoro del personale sanitario: la lezione del Consiglio federale