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NadjaPubblichiamo la lettera aperta di Nadezhda Tolokonnikova – una delle componenti delle Pussy Riot, il gruppo femminista, il cui intervento in una chiesa ortodossa contro la campagna di Putin si è «concluso» con una pesantissima condanna al campo nel 2012. Un’ampia solidarietà con lei – che ha iniziato uno sciopero della fame – deve diventare un elemento di sostegno ad una militante determinata di fronte al potere autocratico di Putin. Lei si iscrive nella tradizione più degna di coloro che resistevano nei campi staliniani.

Non lotta per sé stessa, lotta per tutte e tutti coloro che subiscono condizioni d’incarcerazione assolutamente disumane e prigionie che risultavano da un arbitrario proprio degli ex funzionari del KGB, così come ai tempi del gulag. Nadezhda ha ripreso lo sciopero della fame lo scorso 18 ottobre, quando è tornata in carcere, trasferita in un’altra colonia penale, dopo il ricovero ospedaliero che ha subito dopo la prima settimana di sciopero. Una testimonianza rivolta anche a coloro che nella sinistra (compresa quella ticinese) ammirano Putin, l’antimperialista che lotta, con il suo amico Assad in Siria, contro l’imperialismo.

 

Questo lunedì 23 settembre, inizio lo sciopero della fame. E’ un metodo estremo, ma sono assolutamente sicura che rimane l’unica soluzione nella situazione in cui mi trovo.
La direzione della colonia penale rifiuta di ascoltarmi. Ma non rinuncerò alle mie rivendicazioni, non intendo rimanere senza parlare né guardare senza protestare la gente che cade dallo sfinimento, ridotta in schiavitù dalle condizioni di vita che prevalgono nella colonia. Esigo il rispetto dei diritti umani nella colonia, esigo il rispetto delle leggi in questo campo della Mordovia. Esigo che veniamo trattate come esseri umani anziché come schiave.
Un anno fa sono arrivata alla colonia penale n° 14 del paese di Parts. Le detenute dicono: «Chi non ha conosciuto i campi della Mordovia semplicemente non ha conosciuto i campi». Avevo sentito parlare dei campi della Mordovia allora, quando ero ancora nel carcere preventivo n°6 di Mosca. Laggiù il regolamento è più duro, le giornate lavorative più lunghe e i soprusi più flagranti. Quando partite per la Mordovia, ci si congeda da voi come se partiste per il martirio. Fino all’ultimo, ognuna spera – «forse, nonostante tutto, non sarà la Mordovia? Forse ci sfuggirò?» Non ci sono sfuggita e nell’autunno del 2012, sono arrivata nella regione dei campi sulle rive del fiume Partsa.
La Mordovia mi ha accolta con la voce del vice direttore capo del campo, il tenente-colonnello Kuprianov, che esercita di fatto il comando nella colonia n° 14: «E sappia che dal punto di vista politico, sono uno stalinista.» L’altro capo (dirigono la colonia in tandem), il colonnello Kulaghin, mi ha convocata il primo giorno per un colloquio che aveva per scopo di costringermi a confessare la mia colpa. «Le è successa una disgrazia. Non è forse vero? Le hanno dato due anni di campo. Di solito, quando le succede una disgrazia, la gente cambia il proprio punto di vista sulla vita. Deve riconoscersi colpevole per usufruire della liberazione anticipata. Se non lo fa, non ci sarà nessun condono»
Ho subito dichiarato al direttore che intendevo effettuare soltanto le otto ore di lavoro quotidiano previste dal Codice del Lavoro. «Il Codice del Lavoro è una cosa; l’essenziale è rispettare le quote di produzione. Se non si rispettano, si fanno delle ore supplementari. E poi, qui, ne abbiamo piegato parecchie più dure di lei!» mi ha risposto il colonnello Kulaghin.
Tutta la mia brigata nel laboratorio di cucito lavora dalle 16 alle 17 ore quotidiane. Dalle 7.30 fino a mezzanotte e mezza. Nel migliore dei casi, rimangono quattro ore di sonno. Abbiamo un giorno di ferie ogni sei settimane. Quasi tutte le domeniche sono lavorative. Le detenute presentano richieste di deroga per lavorare durante i giorni festivi, «di loro iniziativa», secondo la formula in uso. In realtà, ovviamente, è tutto tranne che di loro iniziativa; le richieste di deroga sono scritte su ordine della direzione del campo e sotto la pressione delle detenute che ritrasmettono la volontà dell’amministrazione.
Nessuna osa disubbidire (rifiutare di scrivere una richiesta che autorizzi a lavorare di domenica, non lavorare fino all’una di notte). Una cinquantenne aveva chiesto di tornare negli edifici abitativi alle venti anziché a mezzanotte, per potersi coricare alle 22.00 e dormire otto ore, almeno una volta alla settimana. Si sentiva male, aveva problemi di pressione. In risposta, ci fu una riunione della nostra unità dove l’hanno rimproverata, l’hanno insultata ed umiliata, l’hanno chiamata parassita. «Credi di essere l’unica ad avere sonno? Bisognerebbe legarti ad un aratro, grossa vacca!» Quando il medico dispensa dal lavoro una delle donne della brigata, anche in questo caso, le altre le piombano addosso: «Io sono andata a cucire perfino con 40° di febbre! Ci hai pensato a chi dovrà fare il tuo lavoro?»
Al mio arrivo sono stata accolta nella mia brigata da una detenuta che era vicina alla fine dei suoi nove anni di campo. Mi ha detto: «I secondini non oseranno fare pressione su di te. Le detenute lo faranno per conto loro.» E infatti il regolamento è concepito in modo tale che ad essere incaricate di sfiancare la volontà delle donne, di terrorizzarle e trasformarle in schiave mute sono le detenute fungono da capi squadra o responsabili di unità.
Per mantenere la disciplina e l’ubbidienza nel campo, esiste tutto un sistema di punizioni informali: «rimanere nel cortile fine allo spegnersi delle luci» (proibizione di entrare nelle baracche, che sia autunno oppure inverno – nella squadra n° 2, quella delle handicappate e delle pensionate, c’è una donna alla quale hanno amputato un piede e tutte le dita delle mani: era stata costretta a passare un’intera giornata nel cortile – piedi e mani si erano congelati), «vietare l’accesso all’igiene» (divieto di lavarsi e di andare in bagno), «vietare l’accesso alla mensa e alla caffetteria» (divieto di mangiare il proprio cibo, di consumare bibite calde). C’è da ridere e da piangere quando una quarantenne dice: «Ma insomma,oggi siamo punite! Ma ci puniranno anche domani, mi chiedo?». Non può uscire dal laboratorio per fare la pipì, non può prendere una caramella dalla borsa. Vietato.
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Ossessionata dal sonno, sognando soltanto un sorso di tè, la prigioniera spossata, molestata, sporca, diventa un materiale docile alla mercé dell’amministrazione, che vede in noi soltanto una manodopera gratuita. Nel giugno del 2013, il mio stipendio era di 29 rubli (meno di un euro!). Mentre la brigata produceva 150 divise di poliziotti al giorno. Dove finisce il prodotto della vendita di queste divise?
Varie volte, il campo ha incassato sussidi per cambiare completamente le attrezzature. Ma la direzione si è accontentata di far ridipingere le macchine per cucire dalle detenute stesse. Dobbiamo cucire con macchine obsolete e scalcinate. Secondo il Codice del Lavoro, se le condizioni delle attrezzature non corrispondono alle norme industriali contemporanee, le quote di produzione devono essere diminuite rispetto alle quote-tipo del settore. Ma le quote di produzione non smettono di aumentare. A sbalzi e senza preavviso.
«Se gli lasciamo capire che possiamo fare 100 divise, alzeranno il livello fino a 120» dicono le operaie esperte. Ora, non si può non fabbricarli – oppure tutta la squadra verrà punita, tutta la brigata. Ad esempio, sarà costretta a rimanere parecchie ore in piedi sulla piazza d’armi. Con la proibizione di andare in bagno. Con la proibizione di bere un sorso d’acqua.
Due settimane fa, la quota di produzione per tutte le brigate della colonia penale è stata arbitrariamente aumentata di 50 unità. Se prima la norma era di 100 divise al giorno, ora diventava 150. Secondo il Codice del Lavoro, i lavoratori devono essere avvisati dei cambiamenti delle quote di produzione almeno due mesi in anticipo. Nella colonia n°14, ci svegliamo un bel giorno con una nuova quota, perché è saltato in mente ai nostri «mercanti di sudore», così le detenute hanno soprannominato la colonia. Gli effettivi della brigata diminuiscono (alcune sono liberate, altre trasferite), ma le quote di produzione aumentano, e coloro che rimangono lavorano sempre più duro.
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I meccanici ci dicono che non hanno i ricambi necessari alle riparazioni e che non bisogna contarci: «Quando li riceviamo? Ma dove credi di essere per fare simili domande? Qui siamo in Russi, no?»
In qualche mese alla fabbrica della colonia, ho praticamente imparato il mestiere di meccanico. Per forza e sul campo. Mi buttavo sulle macchine con il cacciavite in mano, in un tentativo disperato di aggiustarle. Per quanto le tue mani siano coperte di punture d’ago, di graffi e ci sia sangue dappertutto sul tavolo, provi comunque a cucire. Perché sei una anellino di questa catena di produzione e la tua parte di lavoro è indispensabile che tu la faccia alla stessa velocità delle sarte esperte. E questa dannata macchina che si guasta ogni due secondi!
Poiché sei la pivellina, e vista la carenza di attrezzature di qualità nel campo, a te ovviamente tocca il peggior motore della catena. Ed ecco che il motore si guasta di nuovo, ti precipiti alla ricerca del meccanico (introvabile), le altre ti urlano contro, ti accusano di far naufragare il piano, ecc. Nella colonia non è previsto nessun tirocinio alla professione di sarta. Si sistema la pivellina al suo posto di lavoro e le viene dato un compito.
«Se non fossi la Tolokonnikova, da molto tempo ti avremmo sistemata» – dicono le detenute in buoni rapporti con l’amministrazione. E infatti le altre sono picchiate. Quando sono in ritardo nel lavoro. Sulla schiena, sulla faccia. Sono le detenute stesse a picchiare, ma non succede nessun pestaggio nella colonia che non sia approvato dall’amministrazione. Un anno fa, prima del mio arrivo, è stata pestata a morte una Zingara nell’unità 3 (l’unità 3 è l’unità punitiva, è li che vengono mandate dall’amministrazione quelle che devono subire pestaggi quotidiani). È morta all’infermeria della colonia 14. L’amministrazione è riuscita a nascondere che era morta durante il pestaggio: come causa del decesso hanno segnato attacco cerebrale.
In un’altra unità, le sarte novelle, che non riuscivano a completare la norma, sono state costrette a svestirsi e a lavorare nude. Nessuna osa lamentarsi presso l’amministrazione, perché l’amministrazione ti risponderà con un sorriso e ti rispedirà nella tua unità, dove, per aver fatto la spia, verrai riempita di botte, su ordine di quella stessa amministrazione. Questo nonnismo controllato è un mezzo comodo per la direzione per sottomettere completamente le detenute a un regime di mancanza di diritti.
Nel laboratorio prevale un’atmosfera di nervosismo sempre foriera di minacce. Le donne, che mancano costantemente di sonno e che vengono continuamente stressate da questa corsa disumana alla produzione, sono pronte a esplodere, a urlare, a battersi per il minimo pretesto. Non molto tempo fa, una ragazza ha ricevuto una forbiciata alla tempia perché non aveva fatto passare abbastanza in fretta un pantalone. Un’altra volta, una detenuta ha provato ad aprirsi la pancia con una sega. Si è riuscite a fermarla.
Quelle che erano alla colonia 14 nel 2010, l’anno degli incendi (delle foreste) e del fumo, raccontano che mentre l’incendio si avvicinava ai muri del recinto, le detenute continuavano ad andare a lavorare e a rispettare la norma. Non si vedeva a due metri a causa del fumo., ma le donne si erano legate fazzoletti umidi attorno al viso e continuavano a cucire. Per via dello stato di emergenza non erano più portate in mensa. Alcune donne mi hanno raccontato che avevano una fame spaventosa e che tenevano un diario per annotare l’orrore di quei giorni. Una volta spenti gli incendi, i servizi di sicurezza hanno perquisito le baracche da cima a fondo e confiscato i diari, in modo che niente trasparisse fuori.
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Le condizioni sanitarie nella colonia sono concepite in modo che il detenuto si senta una bestia sporca ed impotente. E benché ci siano servizi igienici in ogni unità, l’amministrazione ha immaginato, con uno scopo punitivo e pedagogico, un «locale igienico comune»: cioè una stanza prevista per 5 persone, dove tutta la colonia (800 persone) deve andare a lavarsi. Non abbiamo il diritto di lavarci nei servizi delle nostre baracche, sarebbe troppo comodo!
Nel «locale igienico comune», regna il parapiglia permanente e le donne, armate di bacinelle, provano a lavarsi più in fretta possibile «la loro nunù» (così si dice in Mordovia) arrampicandosi le une sulle altre. Abbiamo il diritto di lavarci i capelli una volta alla settimana. Ma pure questa «giornata del bagno» a volte è cancellata. Il motivo: una pompa che ha ceduto, una tubatura ostruita. E’ successo che un’unità non possa lavarsi per due o tre settimane.
Quando un tubo si ostruisce, l’urina rifluisce dai servizi verso i dormitori e gli escrementi risalgono a mucchi. Abbiamo imparato a sturare noi stesse le tubature, ma le riparazioni non durano molto, si ostruiscono ancora e ancora. Non c’è una sonda per sturare le tubature nella colonia. Si fa il bucato una volta alla settimana. La lavanderia è uno stanzino con 3rubinetti dai quali sgocciola un filo di acqua fredda.
Sempre con uno scopo educativo, bisogna credere, le detenute ricevono soltanto pane duro, latte generosamente annacquato, cereali sempre rancidi e patate marce. Quest’estate la colonia ha ricevuto una grossa partita di tuberi nerastri ed appiccicosi. Che ci hanno fatto mangiare.
Si potrebbe parlare senza fine delle condizioni di vita e di lavoro nella colonia 14. Ma il rimprovero principale che le faccio è di un altro ordine. È che l’amministrazione fa il possibile per impedire che la minima denuncia, la minima dichiarazione riguardo alla colonia 14 esca dalle sue mura. Il più grave sta nel fatto che la direzione ci costringe al silenzio. Senza fermarsi davanti ai mezzi più bassi e più subdoli. Da questo problema derivano tutti gli altri: le quote di lavoro eccessive, la giornata lavorativa di 16ore, ecc.
La direzione si sente invulnerabile e non esita ad opprimere sempre più le detenute. Non riuscivo a capire i motivi per cui tutte tacevano, prima di dover affrontare io stessa il mucchio di ostacoli che si ergono di fronte al detenuto che ha deciso di agire. I reclami non possono uscire dal territorio della colonia. Unica possibilità: fare uscire i reclami tramite il legale o la famiglia. L’amministrazione, meschina e rancorosa, usa tutti i mezzi di pressione affinché il detenuto capisca che la sua lamentela non gioverà a nessuno. Potrà solo peggiorare le cose. La direzione ricorre alle punizioni collettive: ti lamenti che non ci sia l’acqua calda? Si taglia l’acqua del tutto.
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Nel maggio 2013, il mio legale, Dmitri Dinze, ha presentato una denuncia alla Procura Generale contro le condizioni di vita nella colonia 14. Il tenente-colonnello Kuprianov, vicedirettore del campo, ha immediatamente introdotto condizioni insostenibili nel campo: perquisizioni a ripetizione, rapporti su tutte le persone in relazione con me, confisca dei vestiti caldi e minaccia di confiscare pure le calzature calde. Al lavoro si sono vendicati dandomi lavori di cucito particolarmente complessi, aumentando le quote di produzione e provocando imperfezioni artificiali. La capa della brigata vicina alla mia, braccio destro del tenente-colonnello Kuprianov, spingeva apertamente le detenute a strappare la produzione sotto la mia responsabilità nel laboratorio, affinché fossi spedita in cella per «degrado di beni pubblici». La stessa ha ordinato a delle detenute della sua unità di provocarmi a una rissa.
Si può sopportare tutto. Tutto ciò che riguarda soltanto sé stessi. Ma il metodo della responsabilità collettiva in vigore nella colonia ha delle conseguenze più gravi. Per ciò che fai, soffre tutta la tua unità, tutto il campo. E, cosa più perversa: ne soffrono tutte coloro che ti sono diventate care. Una mia amica è stata privata della liberazione anticipata, liberazione che cercava di meritare con il suo lavoro, rispettando ed anzi superando la sua quota di produzione: ha ricevuto una nota di biasimo perché, io e lei, avevamo presso insieme un bicchiere di tè. Lo stesso giorno, il tenente-colonnello Kuprianov l’ha fatta trasferire in un’altra unità.
Un’altra mia conoscente, una donna molto colta, è stata spedita all’unità punitiva, dove viene picchiata tutti i giorni, perché ha letto e commentato con me il documento intitolato «Regolamento interno dei centri penitenziari». Sono stati compilati rapporti su tutte le persone in contatto con me. Ciò che mi faceva male, era vedere perseguitare donne che mi sono vicine. Allora il tenente-colonnello Kuprianov mi disse, ridacchiando: «Non ti devono rimanere molte amiche!» E mi spiegò che tutto ciò succedeva a causa della denuncia del mio legale.
Adesso capisco che avrei dovuto dichiarare lo sciopero della fame fin dal mese di maggio, nella situazione di allora. Ma di fronte alla pressione terribile che l’amministrazione imponeva alle altre detenute, avevo sospeso i miei reclami contro la colonia.
Tre settimane fa, il 30 di agosto, ho inviato al tenente-colonnello Kuprianov una richiesta affinché conceda 8 ore di sonno a tutte le detenute della mia brigata. Si trattava di diminuire la giornata lavorativa da 16 a 12 ore. Ha risposto: «Benissimo, da lunedì la brigata lavorerà soltanto otto ore». So che era un tranello perché in otto ore è fisicamente impossibile rispettare la nostra quota di cucito. Di conseguenza, la brigata non ce la farà e verrà punita.
«E se vengono a sapere che tutto ciò succede per colpa tua, ha continuato il tenente-colonnello, mai più ti sentirai male, perché nell’altro mondo uno si sente sempre bene.» Dopo una pausa il tenente-colonnello ha aggiunto: «Ultima cosa: non chiedere mai niente per le altre. Chiedi soltanto per te stessa. Sono anni che lavoro nei campi e tutti coloro che vengono a chiedermi qualcosa per qualcun altro finiscono direttamente in cella all’uscita del mio ufficio. Tu sarai la prima a cui non succederà.»
Nelle settimane successive, nell’unità e in laboratorio, le condizioni sono diventate insostenibili per me. Le detenute vicine all’amministrazione hanno cominciato a spingere le altre a vendicarsi: «Ecco, siete punite per una settimana: vietato prendere il tè e mangiare fuori dalla mensa, vietate le pause toilette e le sigarette. D’ora in poi, sarete punite tutto il tempo se non cambiate comportamento con le pivelline e particolarmente con la Tolokonnikova; fate loro ciò che è stato fatto a voi. Siete state menate, neh? Vi hanno rotto il muso di sicuro? Allora spaccateglielo anche a loro. Per questo, nessuno vi rimprovererà.»
Più di una volta hanno cercato di trascinarmi in conflitti e risse, ma che senso avrebbe entrare in conflitto con delle donne che non sono libere dei loro atti e agiscono su ordine dell’amministrazione?
Le detenute della Mordovia hanno paura della propria ombra. Sono terrorizzate. E se ieri ancora erano ben disposte verso di me ed imploravano: «Fa qualcosa per le 16 ore lavorative», dopo la pressione che la direzione ha fatto pesare su di me, hanno pure paura di rivolgermi la parola.
Ho proposto all’amministrazione di placare il conflitto, di porre fine alla tensione artificialmente alimentata contro di me dalle detenute sottomesse all’amministrazione, così come alla schiavitù dell’intera colonia riducendo la giornata lavorativa e riportando le quote di produzione alla norma prevista dalla legge. Ma in risposta, la pressione è ancora salita. Perciò, da questo lunedì 23settembre, inizio uno sciopero della fame e rifiuto di partecipare al lavoro da schiave nel campo, fintanto che la direzione non rispetterà le leggi e non tratterà le detenute non più come bestiame offerto ad ogni arbitrio per i bisogni della produzione tessile, ma come persone umane.

*Tradotto dal russo al francese da Marie N. Pane – pubblicato sul sito Mediapart.