[soliloquy id=”undefined”]di Sofia Ferrari
L’indice nazionale dei prezzi al consumo di ottobre lo ha confermato: anche in Svizzera, seppur misurato con quello strumento sterilizzato che si chiama indice dei prezzi al consumo, il costo della vita ha ripreso ad aumentare. E persino l’indice dei prezzi ufficiale, che val la pena ricordarlo non è un indice del costo della vita ma solo dell’aumento dei prezzi, ha dovuto far atto, nell’ultimo anno di un aumento di circa l’1,2%: qualcosa che a livello ufficiale non si registrava da diverso tempo (perlomeno dal 2015).
Le rivendicazioni sindacali
Come ormai tradizione, le federazioni raccolte nei principali sindacati (USS e Travail suisse) hanno espresso, con le solite conferenze stampa di fine estate, le loro rivendicazioni per i negoziati di fine anno. Allora l’inflazione misura dall’indice dei prezzi al consumo era poco più della metà di quanto non sia oggi (circa lo 0.6-0.7% su base annua).
Le organizzazioni sindacali, prudenti come sempre e sapendo di non avere poco o nulla per imporre il proprio punto di vista, chiedevano aumento generalizzati, cioè un aumento che possa essere rivendicato e a cui possa avere diritto ogni lavoratore e ogni lavoratrice.
Una rivendicazione, come detto, assai moderata, anche tenendo in considerazioni quale sia stata l’evoluzione degli adeguamenti dei salari (effettivi e minimi contrattuali) proprio nei settori dove vigono contratti collettivi di lavoro (CCL). Una semplice occhiata al grafico che pubblichiamo in questa pagina mostra l’evoluzione di questi adeguamenti salari minimi e salari effettivi: possiamo dire, senza forzare troppo il ragionamento, che la discesa continua ormai da una decina di anni.
Nessuna strategia, nessuna mobilitazione
Naturalmente queste rivendicazioni non sono, come sempre, supportate da una strategia atta ad ottenerne la soddisfazione. In poche parole si tratta di poco più che delle opinioni di organizzazioni che si reputano “rappresentative” (in realtà l’Unione sindacale svizzera non rappresenta nulla e non ha oggi alcuna funzione reale: al massimo qualche rappresentatività lo hanno alcune federazioni, o parti di esse in qualche regione del paese).
L’unico settore nel quale si è vista una reale, seppur limitata ad alcune regioni (non decisive) del paese, è stata quella dell’edilizia: ma anche qui si è trattato di mobilitazioni tese più a dimostrare il malcontento dei lavoratore e a confermare una certa “rappresentatività” sindacale piuttosto che costruire una vera e propria strategia di lotta di cui queste giornate fossero non il punto d’arrivo ma il punto di partenza.
Al momento in cui scriviamo la trattativa sembra muoversi. Il padronato sembra disposto a fare marcia indietro su alcune proposte al limite del provocatorio relative alla flessibilizzazione ulteriore dell’orario di lavoro, ma non sembra pronto a concedere quanto chiesto dalle organizzazioni sindacali (150 franchi per tutti). L’orientamento padronale è quello di concedere questo aumento (onnicomprensivo di tutto: cioè rincaro e eventuale aumento salariale) ma scaglionato su almeno tre anni (50 franchi per ogni anno) pari ad un po’ meno dell’1% se prendiamo in considerazione il salario medio pagato nell’edilizia a livello nazionale. Non sarebbe, in una prospettiva di difesa salariale, un buon accordo visto che i lavoratori edili non ricevono un centesimo di aumento da almeno tre-quattro anni; e tenendo in considerazione il fatto che le organizzazioni sindacali hanno già dichiarato la disponibilità che i fondi necessari a mantenere il sistema di pensione anticipata potrebbero essere trovati con un prelievo sui salari dei lavoratori. Un conteggio che, in termini reali, alla fine potrebbe rivelarsi nullo se non addirittura deficitario per i lavoratori edili.
In attesa di una valutazione complessiva…si comincia male
Diverse trattative sono ancora in corso; non sembra tuttavia che l’esito possa essere soddisfacente. Un segnale preoccupante in questo senso è venuto da una delle maggiori aziende del paese (il gruppo COOP) che per di più si fregia anche di condurre una politica del personale “progressista” (ormai le parole stanno perdendo contatto con la realtà…).
Ebbene, per il 2019 la decisione di COOP è di mettere a disposizioni l’1% della massa salariale da distribuire a titolo individuale. Questo significa che alcuni lavoratori (che l’azienda riterrà particolarmente meritevoli) potranno ricevere anche un aumento maggiore e, altri, che l’azienda non ritiene particolarmente meritevoli, potranno ricevere meno, se non addirittura nulla.
Si tratta di meccanismi che si sono sviluppati negli ultimi due decenni, soprattutto su spinta del settore bancario, assicurativo e della grande distribuzione, e che hanno di fatto messo in discussione il concetto stesso di adeguamenti salariali generalizzati. Verso la metà del decennio nel quale ci troviamo questo modo di procedere sembrava essere in leggera perdita di velocità, ma gli ultimi due tre anni hanno segnato una ripresa di queste pratiche.
Se COOP ha deciso così, non vi sono ragioni per le quali Migros (circa 70’000 salariati in Svizzera) non debba andare nella stessa direzione (anche perché Migros da molto tempo pratica senza interruzioni il metodo degli aumenti individuali e non generalizzati). E così buona parte del settore terziario, commerciale e impiegatizio.
Eppure i profitti crescono
A mostrare i limiti di simili prospettive degli accordi salariali è il fatto che le prospettive dei profitti per il padronato svizzero appaiono, ancora una volta, eccezionali. Stando alle stime del giornale finanziario Finanz und Wirtschaft, l’utile per il 2018 che dovrebbe essere versato agli azionisti delle maggiori imprese quotate alla Borsa svizzera (raggruppate nell’indice SMI) sotto forma di dividendi ammonterebbe a quasi 40 miliardi di franchi, il 5% in più rispetto al 2017. Dopo la crisi finanziaria del 2008, l’importo dei dividendi distribuiti è costantemente aumentato, passando da 25 miliardi di franchi a circa 40 miliardi di franchi. Senza dimenticare anche le imprese cosiddette piccole e medie, che appaiono in ottima salute. Infine, a questa distribuzione di una frazione del plusvalore devono essere aggiunti i dividendi pagati dalle imprese non quotate in borsa. Tutto questo dà un’idea delle modalità di ridistribuzione secondaria del plusvalore poiché una prima ridistribuzione avviene nel divario tra il plusvalore complessivo captato dal capitale e i salari effettivamente pagati.
La lotta per aumenti salariali altro non è che una lotta per distribuire a favore dei salariati una parte maggiore della ricchezza (del plusvalore) prodotta attraverso il loro lavoro.
E di fronte a queste cifre tutti comprendono quanto il capitalismo sia un sistema profondamente iniquo e fondato sulla sfruttamento.