Il caos programmato che travolge Trump

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Fedele al suo stile da giocatore d’azzardo, Trump ha provocato il caos sui mercati mondiali. Ha introdotto, ritirato e riformulato una tabella di dazi che ha scatenato un disordine enorme. La sua bravata ha ricreato i peggiori incubi finanziari degli ultimi decenni.
Il magnate ha creato uno scenario inedito di crisi globale provocata di proposito. Alcuni analisti ritengono che tenda a fare marcia indietro di fronte ai risultati negativi delle sue misure, ma altri ritengono che continui a spaventare i suoi interlocutori per costringerli a capitolare.
Si ha anche l’impressione superficiale che Trump sia impazzito e che, nel suo declino, gli Stati Uniti siano finiti sotto il comando di un pazzo. Il magnate mente, insulta, aggredisce e sembra governare la prima potenza mondiale come se fosse un fondo d’investimento. Ma in realtà segue una strategia approvata da importanti gruppi di potere e non va sottovalutato (Torres López, 2025).
Ha tre obiettivi sul piano economico: ripristinare l’egemonia del dollaro, ridurre il deficit commerciale e incentivare il rimpatrio delle grandi imprese. La gerarchia e l’articolazione di questi obiettivi è il grande interrogativo del momento.

Centralità monetaria

Alcuni approcci sottolineano giustamente la prevalenza degli obiettivi finanziari-monetari su quelli commerciali o produttivi. Sottolineano come Trump intenda instaurare un dollaro debole per esportare e un dollaro forte come riserva di valore. Intende favorire le esportazioni statunitensi, garantendo al contempo lo status privilegiato della valuta americana come moneta mondiale (Varoufakis, 2025).
I due principali consiglieri del presidente, Miran e Besset, hanno confermato questo obiettivo, confessando che le pressioni commerciali sono uno strumento al servizio degli obiettivi monetari.
Per ottenere la svalutazione del dollaro e il suo mantenimento come riserva di valore, Trump ha bisogno di rafforzare la sottomissione delle banche centrali europee e giapponesi. Questa subordinazione è indispensabile per preservare il ruolo dei titoli di debito statunitensi (titoli del Tesoro) come principale rifugio del capitale.
Questa garanzia determina l’afflusso di denaro in eccesso nel mondo verso Wall Street. Tokyo e Bruxelles devono continuare ad acquistare questi titoli per convalidare il tasso di cambio del dollaro stabilito da Washington, evitando tensioni valutarie che farebbero crollare l’intero progetto.
Trump vuole rinnovare un dominio incontrastato del dollaro e la conseguente capacità degli Stati Uniti di finanziarsi a spese del mondo. L’imperialismo del dollaro permette alla prima potenza mondiale di indebitarsi senza limiti e di imporre i propri interessi a tutte le economie del globo.
Per far fronte alle serie contestazioni che attualmente investono questo status, il magnate intende ricreare i cosiddetti accordi del Plaza che gli Stati Uniti imposero alla Germania e al Giappone negli anni ’80. All’epoca i due paesi subordinati accettarono di sostenere il deprezzamento del dollaro e di mantenere una parità che garantiva il primato mondiale della valuta statunitense.
Trump adatta questa esigenza ai nuovi tempi e promuove nuove monete digitali legate al potere politico del dollaro. Infatti è stato creato un fondo di criptovalute che sostiene personalmente e promuove questo mercato (stable coins) come ulteriore pilastro del dollaro. Ha già posizionato questi strumenti tra i 10 maggiori detentori di titoli del Tesoro (Litvinoff, 2025).

Il presidente statunitense sogna di riportare il dollaro nella posizione dominane dell’epoca di Bretton Woods. Il suo piano B è riproporre quella dominazione ai livelli raggiunti ai tempi di Nixon e Reagan. Nel primo caso, la banconota statunitense fu liberata dalla convertibilità in oro e iniziò un lungo ciclo di predominio senza supporto metallico oggettivo. Nel secondo caso, la valuta statunitense venne rafforzata dall’aumento dei tassi di interesse, dall’ascesa del neoliberismo e dalla finanziarizzazione sotto il comando della Federal Reserve. Questi due presidenti condividevano con Trump lo stesso profilo di personaggi mediocri, ma hanno introdotto cambiamenti significativi nello status mondiale del dollaro.
Per ripetere quell’impresa, Trump deve frenare la tendenza alla de-dollarizzazione, che minaccia la supremazia del biglietto verde. Tale erosione è alimentata dai BRICS, che hanno iniziato a concepire strumenti di sostituzione della valuta statunitense, attraverso operazioni di pagamento, transazioni commerciali e meccanismi di compensazione finanziaria (Sapir, 2024).
Esiste già un progetto per creare una moneta dei BRICS che, seguendo un percorso diverso dall’euro, avrebbe un effetto simile. Il piano prevede la graduale creazione di una banca centrale, con fondi di riserva e calendari dettagliati di ritmi, tassi e legislazioni (Gang 2025).
Trump è consapevole di queste minacce e ha scatenato il caos per dare il via alla battaglia contro i detrattori della valuta statunitense. Promuove il panico per disciplinare tutti gli alleati sotto il suo comando. Partendo da questa centralizzazione, spera di ricostituire il dollaro e di resettare il sistema economico globale a favore degli Stati Uniti.
Ma il magnate ha bisogno di limitare la portata della crisi che lui stesso genera, perché se questa convulsione ricreasse lo scenario della pandemia o il contesto del crollo bancario del 2008, il terremoto finirebbe per colpire il suo stesso artefice (Marco del Pont, 2025a).
Il barometro immediato per misurare la progressione di questa sfida è l’andamento dei titoli del Tesoro. Il Giappone è il principale detentore di questi titoli da quando la Cina ha iniziato ad abbandonarli. Anche le banche europee e di altri paesi asiatici dispongono di un patrimonio significativo di questi titoli. Il piano di Trump naufragherà rapidamente se, come suggerito dalla recente agitazione dei mercati, i creditori del debito statunitense venderanno questi titoli.
Ma al di là di questo calcolo immediato, il grande interrogativo rimane la capacità generale degli Stati Uniti di ricostituire la propria moneta. Ci sono diverse differenze sostanziali rispetto all’era Nixon e Reagan. Il declino della prima potenza è molto più marcato, il circuito di dominio imperiale è eroso, il crollo dell’URSS e la fase iniziale della globalizzazione sono ormai alle spalle e l’avanzata economica della Cina è travolgente.
La strategia monetaria di Trump deve inoltre affrontare una forte tensione con le banche, mentre Wall Street osserva con diffidenza una rotta che minaccia di ridurre gli enormi profitti degli ultimi tempi.

Il boomerang dei dazi

Il secondo obiettivo di Trump è commerciale e mira a ridurre il monumentale deficit estero degli Stati Uniti. Si tratta di un obiettivo a medio termine, che non ha l’urgenza della svolta monetaria e dipende in larga misura dalla evoluzione del dollaro. Il magnate introduce e modifica quotidianamente i dazi doganali per il ruolo complementare di questi strumenti nei negoziati con ciascun paese.
L’inquilino della Casa Bianca radicalizza, nei fatti, la tendenza protezionistica inaugurata dalla crisi finanziaria del 2008 e dal declino della globalizzazione commerciale. Da allora sono state introdotte 59’000 misure restrittive negli scambi internazionali e le tariffe sono salite al livello più alto degli ultimi 130 anni (Roberts, 2025a). La guerra commerciale scatenata da Trump con il suo pomposo pacchetto di dazi è in linea con questa precedente evoluzione.
Trump fa ricorso a una formula assurda per penalizzare i diversi paesi. Ha inventato un criterio arbitrario di reciprocità per definire la percentuale di ciascuna sanzione con stime assurde del deficit commerciale statunitense che non hanno tenuto conto del surplus americano nei servizi. Ha anche dimenticato che gli squilibri commerciali non sono stati causati dai paesi sanzionati, ma dalle stesse aziende statunitensi, che hanno localizzato i loro investimenti all’estero per migliorare i propri profitti.
Le possibilità di successo del piano trumpista sono molto ridotte, poiché le importazioni e le esportazioni statunitensi non operano più come un elemento decisivo nel commercio mondiale. Sono scese dal 14% nel 1990 all’attuale 10,35% e in quel periodo i BRICS da soli sono passati dall’1,8% al 17,5%. La guerra dei dazi non ha di per sé un potere deterrente e le vendite della prima potenza mondiale nel settore dei servizi sono insufficienti per far pendere da una parte la bilancia (Roberts, 2025b).
Alcune stime sottolineano addirittura che se gli Stati Uniti sospendessero tutte le loro importazioni, 100 dei loro partner riuscirebbero a ricollocare le loro vendite in altri mercati in soli cinque anni (Nuñez, 2025).
Il problema maggiore della guerra commerciale è la possibilità di una spirale incontrollabile. Nel 1929-34, la spirale discendente del commercio internazionale che seguì il pacchetto protezionistico (Smoot-Hawley) provocò un calo del 66% degli scambi e quel crollo ebbe un impatto su tutti i concorrenti. Trump ritiene di poter evitare tale scenario con negoziati bilaterali forzati e gestiti da lui.
Ma ciò che è accaduto in passato suggerisce un esito diverso quando i conflitti si intensificano senza contenimento. L’effetto recessivo del protezionismo sull’economia mondiale è ben noto, così come il legame tra la Grande Depressione e la contrazione del commercio. Sebbene le interpretazioni più comuni colleghino superficialmente entrambi i processi, tralasciando le radici capitalistiche di quanto accaduto negli anni ’30, non c’è dubbio che il protezionismo abbia scatenato, potenziato o accelerato il crollo in quel periodo.
L’aspetto più rilevante di un’eventuale ripetizione di quel precedente sarebbe il suo effetto sull’economia statunitense, che attualmente è molto più vulnerabile alle turbolenze globali. Tale incidenza è maggiore a causa del peso del commercio estero, che è passato dal 6% (1929) al 15% (2024) del PIL del Paese.
Trump reintroduce il protezionismo in un momento storico inopportuno. I dazi sono stati in passato uno strumento efficace per gli Stati Uniti, ma oggi non svolgono più la stessa funzione. Essi facilitavano il decollo delle potenze emergenti, di fronte a concorrenti che favorivano il libero scambio, per mantenere il loro dominio sul mercato mondiale. Il protezionismo è stato utilizzato con grande profitto dalla Germania nel XIX secolo e dal Giappone e dalla Corea del Sud nel secolo scorso. Ma lo stesso strumento non ha permesso alla Gran Bretagna di contenere il suo declino e questa inefficacia colpisce oggi gli Stati Uniti. Trump promuove un protezionismo fuori luogo, perché invece di incentivare l’industria nascente, cerca di soccorrere una struttura obsoleta. Semplicemente ignora che gli Stati Uniti non sono più quelli di una volta.

Il sogno del ritorno dell’industria

Il terzo obiettivo di Trump è produttivo. Vorrebbe favorire il ritorno delle imprese nel loro territorio d’origine e vede in questa rilocalizzazione l’unico modo per rendere effettiva la ripresa dell’egemonia yankee. Per questo ha identificato l’inizio della sua offensiva (il “Giorno della liberazione economica”) con la reindustrializzazione del Paese.
Trump è il primo presidente che riconosce apertamente le difficoltà generate dall’espatrio delle fabbriche. Ricorre a strumenti drastici per invertire questa tendenza, perché capisce che la globalizzazione ha finito per colpire proprio la potenza che ha promosso l’internazionalizzazione. Si rende conto che il primato americano nei servizi, nella finanza o nel mondo digitale non compensa il declino dell’industria e la conseguente erosione del pilastro di qualsiasi economia.

Ma il suo piano di rimpatrio industriale è più irrealizzabile del suo progetto monetario o tariffario. Nessuna alchimia con la moneta o le tariffe offre un’attrattiva sufficiente per indurre un ritorno delle aziende, che hanno ottenuto elevati profitti all’estero. Per quanto persuasivi possano essere gli incentivi, produrre negli Stati Uniti ha un costo superiore. Il rilancio industriale richiederebbe un investimento massiccio che le imprese non sono disposte a sostenere con l’attuale bassa redditività interna.
La svolta protezionistica mira a colmare questo divario, ma si scontra con la difficoltà di chiudere l’economia in un contesto di catene di approvvigionamento globalizzate. Nel prodotto finale di molte merci sono incorporati input provenienti da fabbriche situate in numerosi paesi.
Non è facile immaginare come gli Stati Uniti potrebbero recuperare competitività ricreando i vecchi modelli di produzione nazionale. Di quanto dovrebbe aumentare un dazio affinché diventi più conveniente tornare a produrre nel luogo di origine?
Basta osservare, ad esempio, il caso della Nike, che ha 155 fabbriche in Vietnam e un numero enorme di posti di lavoro in quel paese per rifornire un terzo delle importazioni di calzature degli Stati Uniti. La differenza di costo di produzione è così enorme che un ritorno negli Stati Uniti appare impensabile (Tooze, 2025). Il disaccoppiamento del processo di produzione in Cina comporta un impatto simile per aziende come Apple.
Gli economisti di Trump affermano comunque che il suo progetto sarà realizzabile se si recupererà il primato del dollaro e si ridurrà il deficit commerciale. Ritengono che questo processo correggerà gli squilibri globali di consumo, risparmio e investimento che colpiscono la prima potenza mondiale. Dall’altra parte, i critici neoclassici e keynesiani ricordano che nel suo primo mandato Trump non è riuscito ad avviare questa trasformazione.
Il dibattito tra le due posizioni verte sull’impatto positivo o negativo del protezionismo sulla spesa, sul reddito, sul risparmio e sui consumi. Ma dimentica che il declino degli Stati Uniti non si colloca in questi ambiti. Deriva invece dalla bassa produttività della principale economia occidentale rispetto al suo concorrente orientale in ascesa. Gli indicatori di questo divario sono innumerevoli, così come le prove del suo continuo aumento.
Basta osservare la tendenza generalizzata delle aziende statunitensi a privilegiare gli investimenti finanziari o a operare come un bancomat di Wall Street per confermare la loro competitività in calo. Tendono a spendere di più in riacquisti di azioni e pagamenti di dividendi che in investimenti a lungo termine.
Gran parte di queste aziende hanno globalizzato i propri processi produttivi per contrastare gli elevati costi locali di produzione. Ma questa svolta le ha rese molto dipendenti dall’importazione di beni di consumo a basso costo dal continente asiatico per mantenere bassi i salari locali.
Il grado di dipendenza dall’approvvigionamento di materie prime cinesi è stato confermato dalla stessa decisione di Trump di esentare tutti i chip e i componenti elettronici dai dazi imposti al rivale asiatico. Lo stesso problema si estende ai beni capitali e intermedi (1), che rappresentano circa il 43% delle importazioni totali della Cina (Mercatante, 2025).
Il regresso statunitense non è dovuto a errori commerciali e la sua inversione non passa attraverso l’ultimatum protezionista. Certamente è in atto un cambiamento di modello che erode la divisione globale del lavoro forgiata in decenni di internazionalizzazione produttiva. Ma questo declino non inaugura il processo opposto di rinazionalizzazione industriale immaginato da Trump, perché la capacità degli Stati Uniti di guidare questa svolta si è drasticamente ridotta.

Il declino nei confronti della Cina

È evidente che la Cina è l’epicentro della guerra economica iniziata da Trump. È stata la principale destinazione dei dazi che hanno scatenato la vertiginosa escalation reciproca. Il 34% iniziale di Washington è stato replicato con la stessa percentuale da Pechino e la sfida è rapidamente passata all’84%-104% e al 145%-125%. A questi livelli, il commercio tra i due paesi tende ad essere annullato.
La centralità della Cina nell’offensiva di Trump è stata ulteriormente confermata dalla sua decisione di mantenere le sanzioni nei confronti di quel Paese, dopo averle sospese per il resto del mondo. I dazi elevatissimi nei confronti di Vietnam, Cambogia e Laos fanno parte dello stesso scontro, perché la Cina controlla le catene di approvvigionamento di questi Paesi vicini e da lì riesporta le sue merci.
Pechino ha risposto con fermezza, imponendo immediatamente dazi reciproci e chiarendo che non accetterà il ricatto americano. Ha preparato da tempo questa reazione e intende combattere la battaglia sul piano della produttività, evitando di svalutare lo yuan. Sta già cercando clienti compensativi e sta elaborando offerte specifiche per l’Europa e l’Asia.
C’è un timore diffuso nell’establishment occidentale per l’esito finale della sfida. Circolano molte valutazioni che prevedono il successo finale della Cina se Trump continuerà a spararsi sui piedi.
Ogni giorno emergono nuovi dati sulla superiorità asiatica in innumerevoli campi. Il gigante orientale produce già il 65% dei laureati in scienze, tecnologia, ingegneria e matematica del mondo. Mantiene un tasso di crescita doppio rispetto al suo omologo, ha raggiunto il 35% dell’industria manifatturiera globale e nel 2030 dovrebbe arrivare al 45%. Fino al 2001, l’80% dei paesi commerciava più con gli Stati Uniti che con la Cina, mentre oggi due terzi di quel totale hanno invertito il rapporto (Ríos, 2025).
Nel primo mese della presidenza Trump, la Cina ha avviato 30 nuovi progetti di energia pulita in Africa, ha iniziato la costruzione della diga più grande del mondo in Tibet e ha presentato una nuova generazione di treni ultraveloci. Il suo reattore nucleare ha raggiunto un record di produzione di plasma a una velocità che lo avvicina alla generazione di energia pulita illimitata. I suoi cantieri navali hanno varato la più grande nave d’assalto anfibia del mondo e i test del 6G sulle reti di telefonia cellulare anticipano la sua vittoria nella corsa in questo ambito (MIU, 2025).
Tutta la politica di Trump è un disperato tentativo di frenare l’avanzata cinese. Tale espansione era appena agli inizi all’inizio del millennio, quando la prima potenza smise di ricevere trasferimenti di reddito a suo favore dal partner asiatico. Da lì è iniziato uno scambio sfavorevole che attualmente ha raggiunto un picco difficile da invertire.
Il magnate intende modificare questo scenario avverso con azioni drastiche. Ma la distanza tra le due potenze non è dovuta solo alle differenze di politica monetaria, commerciale o produttiva. Si colloca nella struttura sociale e nella gestione dello Stato. In Cina esistono importanti classi capitaliste che speculano sulle loro fortune e sfruttano i lavoratori. Ma questi gruppi non controllano il potere statale e questo limite spiega la capacità e l’autonomia della leadership politica di orientare l’economia con modelli efficienti.
Trump non ha alcuna formula per affrontare questo svantaggio, che va ben oltre le sue intenzioni e i suoi progetti. Per di più, promuove misure che aggravano i due grandi mali del capitalismo contemporaneo: la disuguaglianza sociale e il cambiamento climatico. Si è imbarcato in una battaglia ormai superata per sostenere la leadership statunitense di un sistema in crisi, ma accentua il declino americano con misure che adotta, modifica e reintroduce.

Il lessico imperiale nostalgico

Trump sta cercando di recuperare la centralità imperiale degli Stati Uniti. È l’unico modo per esaltare i capitalisti del suo Paese a spese del resto del mondo. Il pacchetto di sanzioni, dazi e ricatti che ha messo in atto richiede una rivitalizzazione dell’impero.
Il magnate intende ricostituire tale primato con atteggiamenti bellicosi. Si vanta di aver ottenuto che 75 paesi negozino i dazi, dopo lo spavento provocato dalla sua tabella tariffaria. Ma nasconde la realtà con spacconate che oscurano il reale andamento dei negoziati.
Con l’Unione Europea si approfondisce una disputa iniziata con l’introduzione e la sospensione dei dazi del 25%. Trump aspira a imporre un vassallaggio all’euro, che gli consenta di reindustrializzare il suo paese attraverso la deindustrializzazione del partner transatlantico.
Il passo precedente a questa operazione è il riarmo del Vecchio Continente, con spese per l’energia, la tecnologia digitale e le forniture militari provenienti dagli Stati Uniti. Trump ha seminato il panico tra le élite europee, che in un impeto di russofobia si sono imbarcate in un cieco bellicismo. Stanno tagliando le spese sociali e stanno già sostituendo la tanto pubblicizzata transizione verde con un’altra, grigia, fondata sulla spesa militare.
Ma questa svolta non è priva di conflitti e il rapido accordo che Trump sperava di firmare con Putin (per appropriarsi delle ricchezze dell’Ucraina) non solo è impantanato con la Russia. Ha anche scatenato un conflitto senza precedenti tra Washington e Londra per decidere chi si aggiudicherà il bottino delle terre rare (Marco del Pont, 2025b).
Più decisive sono le trattative con i partner-subordinati dell’Asia. Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Filippine hanno sempre risposto con immutabile disciplina al padrino statunitense. Ma la grande novità degli ultimi anni è la crescente relazione economica di questi paesi con Pechino. Data la portata di questi affari, sono emersi seri dubbi sul blocco anti-cinese promosso dalla Casa Bianca.
Trump lancia messaggi imperiali espliciti per far valere le sue richieste. Utilizza un lessico così diretto che l’inizio del suo secondo mandato ha suscitato numerose segnalazioni giornalistiche in tal senso. La tradizionale cautela dei grandi media nell’uso irritante del termine imperialismo è stata dissipata dalla franchezza del magnate [2].
La stessa esibizione di potere imperiale ha circondato l’annuncio della tabella dei dazi. Trump ha incluso pomposamente in tale elenco tutti i paesi del mondo per sottolineare che nessuno sfuggirà al flagello di Washington. Non ha avuto scrupoli nell’inserire nazioni che non commerciano con gli Stati Uniti o isole abitate solo da pinguini. Ma le proclamazioni imperiali dell’opulento newyorkese contengono ingredienti più di carattere nostalgico che di efficacia. Trump rimpiange l’opera di lontani governanti che hanno combinato il protezionismo con l’espansione imperiale durante il periodo di gloria del capitalismo statunitense.
Esalta con particolare enfasi il presidente McKinley (1897-1901), che si profilò come un “Napoleone del protezionismo”. Introdusse un drastico aumento del 38-50% dei dazi (1890), mentre guidava l’espansione verso il Pacifico (Hawaii, Filippine, Guam) e la conquista dei Caraibi (Porto Rico e mire su Cuba). Trump idolatra tanto la sua virulenta difesa dell’industria quanto l’estensione con le armi del raggio territoriale statunitense (Borón, 2025).
Ma questa evocazione si scontra con la realtà del XXI secolo. Il presidente americano non può mettere in atto il protezionismo invasivo del suo idolo e ha scelto di combinare la pressione tariffaria con la cautela militare. Lungi dal riprendere gli interventi del Pentagono ovunque, modera l’impulso invasivo per contenere il deterioramento della competitività economica yankee.

In un impeto di realismo, Trump ha preso atto del fallimento bellico di Bush e della battuta d’arresto economica di Biden. Per questo sta sperimentando una terza via di moderazione militare e di ripensamento monetario-commerciale. Sa che la capacità offensiva degli Stati Uniti è stata drasticamente limitata da un’economia che detiene il 25% del PIL mondiale (e non il 50% come nel 1945), contro il crescente 18% della Cina.
Trump esacerba il lessico interventista nei confronti degli avversari esterni. Come i suoi predecessori contemporanei, ha bisogno di contrastare il declino economico con una grande dimostrazione del potere geopolitico-militare che preserva il suo Paese. Ma il magnate sa che la compensazione bellica delle carenze economiche aggrava le tensioni tra i settori militaristi e produttivisti dell’establishment. I guerrafondai tendono a favorire campagne distruttive a qualsiasi costo che tuttavia incidono sul bilancio statale e deteriorano la competitività delle imprese.
Trump naviga tra i due settori, sostenendo la ripresa dell’economia con formule protezionistiche. Incoraggia la spesa per gli armamenti, ma vuole limitare gli interventi militari e cerca di contenere l’effetto negativo del gigantismo bellico sulla produttività. L’ipertrofia militare imposta dal Pentagono è una malattia incurabile che affligge da tempo l’economia statunitense e che Trump non riesce a temperare.

Tensioni locali

Le contraddizioni interne che affliggono il progetto protezionista hanno la stessa portata delle tensioni esterne. Esse comportano un effetto inflazionistico come minaccia più immediata. I dazi renderanno più costose le merci per il semplice fatto di introdurre un costo aggiuntivo sui prodotti importati.
Questo effetto sarà importante, sia per i prodotti alimentari di base che per i prodotti trasformati. Il Messico, ad esempio, fornisce oltre il 60% dei nutrienti freschi e si stima che un dazio del 25% sulle automobili prodotte in quel paese (o in Canada) aumenterebbe il prezzo finale di ogni unità di 3’000 dollari. Recentemente Trump ha celebrato la delocalizzazione decisa da Honda, che produrrà la sua nuova auto Civic in Indiana invece che a Guanajuato. Ma tale trasferimento aumenterebbe il costo medio di ogni automobile tra i 3’000 e i 10’000 dollari (Cason; Brooks, 2025).
È vero che l’inflazione potrebbe anche contribuire a ridurre il valore reale del debito, ma il suo impatto dirompente sull’economia nel suo complesso sarebbe molto superiore a tale riduzione del passivo.
Tutti gli analisti concordano nel sottolineare l’effetto recessivo della svolta protezionistica, che potrebbe provocare una contrazione dell’1,5 o del 2% del PIL. Il calo del livello di attività, che non era finora contemplato dalle previsioni economiche, è diventato una grande e imminente probabilità.
Questa prospettiva mette sotto pressione i rapporti di Trump con la Federal Reserve, che resiste alla riduzione dei tassi di interesse. Il potente presidente favorisce tale diminuzione per contrastare il probabile calo della produzione, dei consumi e dell’occupazione. Il crollo dei mercati scatenato dall’annuncio della sua tabella protezionistica ha aggravato questo scenario cupo e le conseguenti dispute del presidente con la leadership della Fed.
Trump continua inoltre la sua battaglia con i settori globalisti, che difendono gli interessi delle aziende e delle banche più internazionalizzate. L’élite di Davos è screditata dai suoi fallimenti, ma aspetta l’occasione per riprendere l’offensiva. Se i risultati della svolta protezionista saranno negativi, la controffensiva sarà forte e metterà i Democratici in corsa per le elezioni di medio termine del 2026.
Il capo della Casa Bianca si è circondato di imprenditori emergenti (squali), che litigano con i loro pari dello spettro tradizionale (falchi). L’establishment ha dato il via libera al suo progetto, ma si aspettava dazi moderati e comportamenti più vicini alla cautela del primo mandato. Le turbolenze in corso li inducono a chiedere una frenata della raffica presidenziale. I miliardari sono infastiditi dalla forte riduzione del loro patrimonio causata dal crollo dei mercati.
Le tensioni si estendono alla cerchia stessa del magnate, che deve mediare tra i protezionisti estremi (Navarro) e i funzionari con investimenti all’estero (Musk). Lo stesso piano di controlli tariffari porta inoltre all’introduzione di una selva di regolamenti, in contrasto con lo smantellamento burocratico promesso dalla nuova amministrazione (Malacalza, 2025). Gli innumerevoli conflitti che Trump deve affrontare superano di gran lunga quelli che è in grado di risolvere.

Bonapartismo imperiale

La conflittuale offensiva esterna, l’assenza di risultati immediati, la forte opposizione dei globalisti e la fragile coesione interna inducono Trump a rafforzare l’autoritarismo della sua gestione. Per questo motivo tenterà nuovamente la strada bonapartista che ha esplorato senza successo nel suo primo mandato. Ha anche bisogno di rafforzare il potere della Casa Bianca per far fronte alla contrazione degli investimenti dei capitalisti statunitensi.
Trump proviene dal duro mondo degli affari ed è abituato a negoziare battendo il pugno sul tavolo per ottenere vantaggi dalla controparte. Questo comportamento lo distingue dai suoi pari del sistema politico, forgiati da trattative, conciliaboli e ipocrisie verbali.
Per consolidare il suo protagonismo, si è lanciato in un iperattivismo e si distingue come firmatario quotidiano di innumerevoli decreti. Cerca di centralizzare il comando per disorientare gli oppositori e privilegia la lealtà rispetto a qualsiasi altra qualità dei suoi funzionari.
Il magnate sta sondando il suo aspetto bonapartista nella tradizione statunitense del leader carismatico. Cerca di assumere un ruolo messianico di interprete della nazione, stigmatizzando i migranti e denigrando il progressismo. Con questo personalismo estremo, cerca di rafforzare l’immagine di uomo predestinato a realizzare il sogno americano. Ma questa rotta aumenta le tensioni con l’establishment globalista, che controlla i media più influenti (Wisniewski, 2025).
Trump irrompe nel vuoto lasciato dal discredito dei politici tradizionali. Approfitta del clima creato dal rifiuto dei loschi intrighi parlamentari e utilizza i poteri del presidenzialismo per rafforzare la sua figura (Riley, 2018).
Svolge una predicazione affine alla corrente conservatrice, che esacerba la contrapposizione culturale degli Stati Uniti con il resto del mondo. In contrapposizione alla tradizione assimilazionista, rifiuta l’immigrazione latina ed esalta la lingua inglese. Esalta gli ideali anglo-protestanti dell’individualismo e dell’etica del lavoro, disprezzando la tradizione ispanica, che identifica con l’ozio e la mancanza di ambizione.
Il discorso trumpista riprende l’eredità protezionista (Hamilton) e patriottica (Jefferson) che privilegia la prosperità interna (Jackson). Contesta il liberalismo cosmopolita (Wilson) che associa tale benessere all’apertura verso l’esterno (Anzelini, 2025).
Con questa visione Trump rigenera i postulati dei sovranisti, che tradizionalmente privilegiavano il razzismo e l’anticomunismo nella determinazione delle alleanze esterne. La simpatia di questa corrente americanista per il nazismo ha incluso in passato l’affinità con il Ku Klux Klan e l’apartheid sudafricano. Questa eredità è attualmente ripresa da Elon Musk e con questa impronta il trumpismo raddoppia le campagne contro il profilo multietnico, multirazziale e multiculturale del Partito Democratico.
La corrente guidata da Trump esprime una variante etnocentrica dell’imperialismo yankee, tanto distante dal neoconservatorismo repubblicano quanto dal cosmopolitismo democratico. Essa sottolinea gli aspetti identitari dell’ideologia statunitense ed esalta il patriottismo reazionario come componente sostanziale del suo credo. Ma con questa adesione ideologica, essa partecipa allo stesso conglomerato imperialista delle altre due correnti.
Bush, Biden e Trump costituiscono tre modalità dello stesso imperialismo che sostiene il capitalismo statunitense. Le diverse modalità di questo dominio costituiscono modalità interne di uno stesso blocco. L’imperialismo è una necessità sistemica del capitalismo che funziona confiscando le risorse della periferia, spostando i concorrenti e soffocando le ribellioni popolari. Trump governa con questi parametri e la sua crudezza rende evidente questa affiliazione.

Traiettorie, ambizioni e resistenze

È corretto classificare Trump come un capitalista-lumpen, nel senso che Marx dava agli speculatori finanziari dell’alta borghesia, coinvolti in molteplici frodi. Il percorso del magnate riunisce tutti gli ingredienti di questo modello per il numero di truffe, evasioni fiscali, fallimenti forzati, rapporti con la mafia e riciclaggio di denaro che hanno segnato la sua carriera negli affari. Si è circondato di personaggi della stessa risma, con pesanti precedenti nel mondo del sottobosco finanziario (Farber, 2018).
Ma questo percorso personale non ha caratterizzato il suo primo governo, né definisce il suo mandato attuale. Trump agisce come rappresentante di settori capitalisti molto rilevanti e guida un’amministrazione fondata su una coalizione di gruppi imprenditoriali americanisti, con aziende digitali che hanno abbandonato il globalismo. Si appoggia al settore siderurgico, al complesso industriale-militare, alla fazione conservatrice del potere finanziario e alle aziende focalizzate sul mercato interno, che sono state penalizzate dalla concorrenza cinese (Merino; Morgenfeld; Aparicio, 2023: 21-78).
Trump ha ottenuto l’attuale mandato con il sostegno di una plutocrazia digitale, che ha accantonato le sue preferenze per i Democratici. I cinque giganti dell’informatica costituiscono attualmente il settore predominante del capitalismo statunitense, che ha bisogno della bellicosità trumpista per combattere i rivali asiatici.
Più controverso è il significato del nuovo potere politico ottenuto dai milionari digitali grazie a Trump. Hanno già incatenato il pubblico ai loro social network e mantengono i clienti legati a un groviglio di algoritmi. Questo legame permette loro di ampliare la loro redditizia intermediazione nella pubblicità e nelle vendite. Ora cercano di proiettare questo potere su un’altra scala, attraverso la gestione diretta di diversi settori del governo.
Questi gruppi formano potenti oligopoli che alcuni identificano con la predazione e la cattura della rendita. Per questo motivo utilizzano il termine “tecnofeudali” per concettualizzare la loro attività (Durand, 2025).
Altri approcci contestano questa denominazione, che diluisce il senso capitalistico di imprese chiaramente inserite nei circuiti dell’accumulazione. La loro leadership tecnologica permette loro di sfruttare la plusvalenza straordinaria che assorbono dal resto del sistema. Non operano nel campo delle rendite naturali, né ottengono profitti attraverso la coercizione extraeconomica (Morozov, 2023).
Ma le due visioni coincidono nel sottolineare l’inedita gestione della vita sociale che ha raggiunto un settore lanciato alla conquista di porzioni significative del potere politico. Con l’appoggio di Trump, cercano innanzitutto di neutralizzare qualsiasi tentativo di regolamentazione statale delle reti.
La plutocrazia digitale è impegnata nella gestione diretta delle leve dello Stato per modellare l’attività politica al proprio servizio. Alcuni autori utilizzano la nozione di capitalismo politico per individuare questa appropriazione. Osservano l’inizio di un regime di accumulazione, fondato sulla nuova dipendenza delle imprese da un potere politico che definisce i beneficiari con maggiore discrezionalità fiscale rispetto al passato. Il trumpismo potrebbe agire come artefice di queste trasformazioni al vertice del capitalismo (Riley; Brenner, 2023).
Ma la sua deriva autoritaria ha già stimolato anche la resistenza nelle strade. Sotto uno slogan unificante e mobilitante (“Giù le mani”), 150 organizzazioni hanno promosso una protesta di massa di grande successo in mille città. Hanno iniziato a riprendere la risposta dal basso che Trump ha affrontato nel suo primo mandato e che è riuscito a temperare all’inizio del suo ritorno. Nei grandi eventi che si sono succeduti è percepibile un rifiuto nei confronti di Trump e degli oligarchi che lo circondano.
Le marce canalizzano il malcontento per i tagli ai diritti democratici promossi dall’inquilino della Casa Bianca. Se l’erosione della legittimità interna di Trump si unirà alla resistenza che suscita nel mondo, si apriranno le strade per una grande battaglia contro il suo governo. Da questa convergenza potrebbe emergere un’alternativa che inizi a sostituire l’oppressione imperiale con la fratellanza dei popoli.

*Claudio Katz, argentino, economista, ricercatore del CONICET (consiglio nazionale della ricerca scientifica), professore dell’Università di Buenos Aires, membro del collettivo degli economisti di sinistra (EDI). Questo articolo è apparso sul suo blog personale www.lahaine.org il 14 aprile 2025.

[1]I beni capitali, o strumentali, sono beni finali utilizzati dalle imprese per produrre altri beni e servizi, come macchinari e attrezzature. I beni intermedi, invece, sono beni utilizzati come input nella produzione di altri beni e non rientrano nel calcolo del PIL. (NdT)
[2] “Trump sogna un nuovo impero americano” (
New York Times); “Sulla scena globale, un Trump imperiale offre alcune sorprese positive” (Washington Post); “Trump, l’imperatore sfrenato” (El País); “Donald Trump sta cercando di instaurare una presidenza imperiale” (Le Monde), citati da Anzelini (2025).

Riferimenti bibliografici citati nell’articolo

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