È un momento molto movimentato quello che vive il mondo dell’energia elettrica nazionale e cantonale. Due dimensioni che, per il Ticino vista la sua storia, sono intimamente legate. A livello nazionale la situazione è chiara. Il crollo dei prezzi dell’energia elettrica e una situazione evidente di sovrapproduzione hanno portata alcuni colossi dell’energia elettrica in una situazione di grave difficoltà. Esemplare la situazione di Alpiq che sembra non voler porre fine alla propria politica di dismissioni.
La crisi dei grandi gruppi non poteva non avere riflesso in Ticino talmente la loro presenza è storicamente importante. Una crisi che, si combina, in prospettiva con la questione dell’eventuale riscatto di alcuni dei grandi impianti di produzione situati in Ticino le cui concessioni giungeranno a scadenza tra non molti anni.
È in questo contesto, a nostro avviso, che vanno viste le iniziative assunte in questi ultime settimane dal Dipartimento Finanze e Economia (DFE) e dal suo capo Christian Vitta che ha dimostrato un attivismo senza pari. Significativi di questo atteggiamento la “lettera d’intenti” firmata dalle aziende ticinesi distributrici di energia e la stessa Azienda Elettrica Ticinese (AET) e l’interesse mostrato, sempre attraverso le parole del capo del DFE, per le intenzioni di Alpiq di cedere il 49% delle sue partecipazioni idroelettriche, tra le quali spiccano le presenze in Ticino (OFIMA e OFIBLE).
È in questo contesto che assume un’importanza decisiva il ruolo di AET. E non a caso proprio in questi mesi questo nuovo ruolo viene affinato attraverso la proposta di una nuova struttura per la sua gestione, presentato attraverso un messaggio che il Gran Consiglio, dopo il rinvio dell’ultima seduta, dovrebbe comunque discutere tra non molto.
Il testo e la filosofia alla base di questa riforma ha già fatto le proprie prove (si dice apertamente nel rapporto della commmissione) e i risultati sono tutt’altro che brillanti. Pensiamo, ad esempio, a quanto è successo e succede con BancaStato. Qui una serie di strumenti e rapporti tra le varie istanze non hanno garantito né un maggiore controllo, né tantomeno una discussione pubblica e democratica sulle strategie di fondo di quelli che sono, o dovrebbero, di fatto beni pubblici.
È qui la differenza. Afferma il rapporto che “secondo una impostazione condivisa lo Stato moderno in taluni ambiti e servizi ha visto il passaggio da prestatore di servizi a garante dei servizi”. Un’impostazione che tutti i partiti (“destra” e “sinistra”) sembrano condividere, ma che evidentemente non possiamo sostenere. E questo per una ragione molto semplice che molti hanno ripetuto in questi ultimi anni e che ci hanno visto in prima fila proprio nella contestazione di quei progetti che su tale filosofica si basavano.
Infatti dietro a tale impostazione vi sono né più né meno che due processi che non sono il risultato naturale della evoluzione economica, ma il risultato di scelte politiche.
Il primo è il processo di privatizzazione dei servizi pubblici, attraverso la modifica dell’assetto proprietario, sia aprendo in parte o totalmente ai privati, sia modificando la natura giuridica di queste società pubbliche (la loro trasformazione in SA), indipendentemente dalla quota maggioritaria o minoritaria che lo Stato si riserva.
Il secondo aspetto, intimamente collegato al primo è la trasformazione profonda dei criteri di gestione di queste società, della loro “governance” , come si ama ripetere con termine tutt’altro che neutro, che alla fine ne snaturano la ragione di essere. Società che da servizio pubblico diventano servizio al pubblico (non a caso espressione indicata nei testi che accompagnano questa proposta di modifica legislativa). E che si muovono quindi in una logica essenzialmente diversa da quella del servizio pubblico. Fondamentale diventa a questo punto la redditività del capitale investito (non a caso vengono dotate di una capitale al quale si impone comunque un interesse) e il confronto con la redditività di imprese simili (il cosiddetto benchmark). Questa modifica di orientamento politico e gestione può avvenire, è avvenuta, anche quando non vi è stata trasformazione della natura giuridica – come è stato il caso con la Posta per lungo tempo – o anche quando viene mantenuto in mani pubbliche la proprietà dell’azienda pur nel quadro di una trasformazione in SA – come è il caso delle FFS o, appunto, di AET e BancaStato.
Sono queste due profonde trasformazioni che hanno segnato il declino del servizio pubblico nel nostro paese (e non solo), frutto di un preciso orientamento del capitalismo neoliberale. E si tratta di politiche la cui realizzazione non solo hanno peggiorato il servizio pubblico, ma anche contribuito in modo importante a peggiorare occupazione e condizioni di lavoro in queste aziende.
Le proposte di modifica della LAET in discussione davanti al Parlamento si iscrivono in questa logica. Di fatto al Gran Consiglio resterebbe poco o nulla da dire: le sue attribuzioni (che quasi sempre sono quelle di “prendere atto”) vengono prima “masticate e rimasticate” da altri organi per fare in modo che, alla fine, non resta che “prendere atto” (non a caso nel rapporto della commissione questa espressione ritorna più volte per designare le competenze del Gran Consiglio). L’unico aspetto che viene salvato rileva dell’approvazione di impegni straordinari o importanti (art. 6): ma si è pensato bene di evitare che questa decisione possa in ogni caso essere oggetto di referendum.
In realtà alcune scelte “importanti” o “straordinarie” possono avere una valenza strategica. Pensiamo, ad esempio, alla recente offerta di acquisto (poi non concretizzatasi) di BSI da parte di BancaStato (in collaborazione con UBS e altri compari). Ci è stata presentata come un semplice investimento finanziario: ma è evidente a tutti che se quella operazione fosse, sciaguratamente, andata in porto la natura stessa di BancaStato e quindi le sue opzioni strategiche sarebbero cambiate radicalmente. Eppure di tutto questo il Gran Consiglio (e i cittadini e le cittadine) non possono discutere, né tantomeno pronunciarsi.
In altre parole a noi pare che l’obiettivo di questa riforma sia proprio quello di allontanare sempre più i cittadini e le cittadine dalla possibilità di esprimersi sulle opzioni di fondo di queste società che, da fatto gestiscono beni pubblici sulla cui utilizzazione spetta ai cittadini e alle cittadine l’ultima parola.
Nel momento in cui, come indicavamo all’inizio, si affacciano all’orizzonte scelte strategiche fondamentali (non a caso il ministro Vitta, su mandato del governo, ha deciso di costituire un “gruppo strategico” sul futuro del settore idroelettrico in Ticino), appare decisivo che i cittadini e le cittadine possano esprimersi nel modo più ampio possibile sulle scelte di AET che sarà, non vi sono dubbi, il perno di qualsiasi scelta strategica.
Ampie e serie ragioni che ci spingono ad opporci al progetto di riforma della LEAT.