La “modernità” dello Smart-working

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Da qualche mese, moltissime lavoratrici e lavoratori (pare siano oltre 2 milioni) sono in smart-working, cioè, stanno svolgendo da casa il lavoro che fino a poche settimane prima svolgevano nella sede aziendale.

L’urgenza del distanziamento e della prevenzione del contagio ha fatto assumere queste nuove forme di prestazione lavorativa senza alcuna discussione preliminare su che cosa questo “lavoro agile” comporti. D’altra parte pochissima discussione ci fu già nel 2017, quando venne approvata dal parlamento la legge 81 che regolamentava e autorizzava lo Smart working, presumendo di improntarlo su “flessibilità organizzativa, volontarietà delle parti e adozione di nuova e appropriata strumentazione tecnologica”. Gli stessi sindacati in fin dei conti presero atto di questa nuova tipologia di lavoro, senza discuterne la validità (dal punto di vista del lavoro dipendente), né tanto meno adottare nessuna strumentazione adeguata ad una sua specifica tutela.

Si ritenne, con grave miopia, che esso avrebbe avuto un’esistenza totalmente marginale nel panorama contrattuale del paese. Al contrario, nei pochi anni che ci dividono dal 2017, esso è cresciuto in maniera esponenziale. Lo scorso anno, a fine 2019, l’Osservatorio Smart-Working del Politecnico di Milano valutava in 570.000 il numero di lavoratrici e lavoratori dipendenti che “godono di flessibilità e autonomia nella scelta dell’orario e del luogo di lavoro, disponendo di strumenti digitali per lavorare in mobilità”, già in crescita (del 20%) sull’anno precedente, soprattutto nelle aziende dell’information technology, nei settori bancario-assicurativo e delle telecomunicazioni.

Poi, naturalmente, non previsto da nessuno, è arrivato il virus e l’uso di questo strumento è esploso, coinvolgendo in poche settimane, appunto, direttamente e indirettamente milioni di persone.

D’altra parte, l’uso del lavoro a domicilio è tutt’altro che un’invenzione legata alle “nuove tecnologie”. Anzi, merita ricordare che fin dagli albori del lavoro, perfino nella fase di prevalenza dell’artigianato, il lavoro si svolgeva in ambienti che non si distinguevano in nulla da quelli adibiti alla residenza familiare. Ma poi, anche con il lavoro industriale, il lavoro che oggi potremmo definire “contoterzista” si è sviluppato a dismisura. Nella Lombardia della fine del 19° secolo, attraversata dalla rapida trasformazione delle sue tradizionali strutture economiche, la fabbrica (soprattutto quella tessile) si meccanizzava, la giornata lavorativa giungeva fino alle 16 ore in condizioni che oggi definiremmo intollerabili e sotto una disciplina più che militaresca, il lavoro minorile impegnava anche bambini di 4 anni, all’opera non solo negli stabilimenti, ma anche a domicilio (vedi la cronaca che ne fa nel settembre 1880 il settimanale milanese “La Lotta”). Anzi, il lavoro nelle abitazioni, facilitato dalla maggiore maneggiabilità delle macchine da cucire, era parte importante e veniva effettuato contemporaneamente o in alternanza con la produzione nel laboratorio centralizzato, impegnando non solo la lavoratrice, ma anche altri componenti della famiglia.

Quelle che allora erano le principali fabbriche di confezioni, la Haardt, la Otto Kellental, la Prandoni, i Magazzini Bocconi (che diverranno poi “La Rinascente”) contavano prevalentemente sul lavoro a domicilio.

Era un tipo di lavoro che all’occorrenza coinvolgeva anche i minori presenti in casa, e in taluni casi perfino persone esterne, riproponendo gli schemi organizzativi tipici del laboratorio. Le macchine da cucire da consegnare alle lavoratrici venivano acquistate dalle aziende e scontate rateizzandole a scapito delle già magre retribuzioni della dipendente. Questa forma di lavoro, vista la non possibilità di godere dei congedi per maternità, coinvolgeva anche le donne incinte, altrimenti destinate alla totale indigenza o alla totale dipendenza dal salario maschile.

Non era dunque un rapporto occasionale quello che intercorreva tra abitazione e laboratorio, ma si basava su una precisa strategia imprenditoriale finalizzata alla riduzione dei costi, risparmiando su impianti, affitti, spese generali e ricorrendo a manodopera che, in quanto atomizzata nelle case, disponeva di un bassissimo potere contrattuale. Il lavoro a domicilio peggiorava ulteriormente il già precario stato delle abitazioni, completamente sacrificate al mestiere, mentre i figli venivano utilizzati per funzioni accessorie, come fattorini per commissioni urgenti. Ovviamente la postura delle sarte, per lunghe ore, era basata su postazioni di fortuna e totalmente improprie, provocando gravi malattie professionali.

L’impossibilità di qualunque controllo sugli orari delle lavoratrici a domicilio imponeva l’uso del cottimo, che poi, per contaminazione, veniva anche utilizzato per chi lavorava nello stabilimento, con la conseguenza della riduzione delle retribuzioni e dell’incremento dei carichi di lavoro, a spese dell’occupazione (vedi “Il Sarto”, il periodico della Federazione di categoria di agosto 1904).

Dunque, come vediamo, neanche con il coronavirus riusciamo veramente a vedere qualche cosa di nuovo sotto il sole. Certo, oggi le condizioni dello Smart-working, anche al netto delle contesto emergenziale, sono significativamente diverse.

Lo Smart-working non sappiamo se diventerà veramente la forma prevalente del lavoro in un futuro futuribile. Abbiamo visto che esso non è affatto indice di “modernità”, tanto quanto il neo liberismo non è una forma “nuova” di capitalismo. A differenza del telelavoro, che non modificava sensibilmente il rapporto di lavoro, salvo che nella sua collocazione, il lavoro “agile” incide profondamente sulla natura stessa dell’attività lavorativa, introducendo il massimo di “flessibilità”. Tu puoi lavorare dove preferisci, con il dispositivo che preferisci, negli orari che preferisci, ma devi raggiungere entro un termine determinato gli obiettivi fissati dall’azienda. E’ il result-based management di “Industria 4.0”. Già il ministro renziano Poletti, definendo obsoleta la “centralità degli orari di lavoro”, cercò, allora senza risultato, di raggiungere questo obiettivo.

Secondo un’indagine svolta dal già ricordato Osservatorio del politecnico, con un uso diffuso e massiccio dello Smart-working, “attraverso l’aumento della produttività e della qualità del lavoro delle persone, la riduzione dei costi di gestione e il miglioramento della soddisfazione e del coinvolgimento dei dipendenti”, le imprese italiane potrebbero risparmiare 37 miliardi di euro, in abbattimento dei costi di gestione e in incremento dei risultati. Dunque il lavoro agile per i padroni potrebbe valere una montagna di soldi…

La rarefazione della concentrazione delle lavoratrici e dei lavoratori e, seppure in una visione tendenziale, la scomparsa di sedi fisiche porta con sé una drastica riduzione delle relazioni sociali tra di essi, limitando seccamente gli spazi di attività politico-sindacali, per non parlare dei quelli di autorganizzazione e di lotta.

Naturalmente anche questa forma di lavoro non impedisce, ma rende più difficile la lotta collettiva. Vale la pena perciò ricordare qui l’esperienza delle “piscinine”, centinaia di giovanissime sartine a domicilio (tra gli 8 e i 14 anni) di Milano che la mattina del 23 giugno 1902, radunatesi a Piazza Camposanto, raggiunsero in corteo i principali stabilimenti per sollecitare le operaie a scendere in sciopero e trascinarle poi, tutte insieme, alla Camera del lavoro, dove venne costituita una  “commissione di giovanissime sarte e modiste” che stese un “memoriale” rivendicativo contro le misere paghe, le molteplici mansioni a cui erano adibite e la pesantezza dei carichi di lavoro, denunciandone le gravi conseguenze (Una storia imprevista. Femminismi del Novecento ed educazione, Milano, Guerini studio, 2003).

*articolo apparso sul sito dei nostri compagni di Sinistra Anticapitalista

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